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Contro la legge-bavaglio
25 Maggio 2010
Articoli del 2010
Un articolo di Vittorio Zucconi, un articolo di Alessandra Longo e l’appello dei direttori dei mass media su un rischio che ci colpisce tutti. La Repubblica, 25 maggio 2010

In Italia è battaglia sul disegno di legge che imbavaglia i giornali. Ma dagli Stati Uniti arriva una bocciatura. Ecco le ragioni

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON. Era il 1789 e Benjamin Franklin non ebbe alcun dubbio: «La libertà della stampa – disse l´ometto divenuto immortale grazie all´ombrello parafulmine – deve essere assoluta. I giornali devono essere lasciati liberi di esercitare la propria funzione investigativa e di controllo con forza, vigore e senza impedimenti». Sarebbe stato contento, Franklin, se avesse potuto leggere la sentenza della Corte Suprema che nel 2001 sentenziò che anche la pubblicazione di intercettazioni telefoniche "illegalmente ottenute" da un giornale (caso Bartnicki v. Vopper) è protetta dal diritto alla libera informazione e il giornalista che la diffonde non è perseguibile. Duecentovent´anni e migliaia di politicanti, presidenti, bugiardi, finanzieri, grandi ladri, magistrati corrotti, governatori, boss e ipocriti assortiti distrutti più dalla penna che dalla spada o dal martelletto del giudice, il risultato di questa magnifica ossessione per la libertà di stampa resta scolpita nella Costituzione.

Libertà garantita dai giudici e difesa anche nel caso limite del pornografo Larry Flynt contro il reverendissimo Falwell da una Corte Suprema che nel 1988 sembrò riprendere quasi parola per parola quello che due secoli prima avevano detto i Fondatori: «L´esercizio della libertà di espressione è essenziale per la vitalità della società nel suo complesso». Un principio che si può capire ancora meglio nella citazione opposta di un contemporaneo di Franklin sull´altra sponda dell´Atlantico, Napoleone Bonaparte. «Temo i giornali più di centomila baionette».

Il prezzo, e il profitto, che l´America ha pagato e incassato per la inflessibile difesa della libertà d´informazione e di investigazione giornalistica anche nei suoi eccessi ed errori, sono stati, in questi due secoli incomparabilmente più alti di quanto l´Europa abbia conosciuto. Nella tradizione che ogni spettatore di vecchi western ha visto celebrare con la figura del giornalista di villaggio che rischia la vita per sventare le trame del prepotente locale e che l´ultimo film di questo genere, State of Play del 2009, ha celebrato con il matrimonio fra giornalismo tradizionale e i «blog» contro a corruzione politica, la libertà di informare, ficcanasare, svergonare e sbagliare è qualcosa che ogni americano dà per scontata, come i barbecue d´estate e il picnic del 4 di luglio.

Niente è «off limits», tabù, di fronte all´imperativo dell´informazione. Molti ricordano ancora i fasti del caso Watergate, quando un Presidente eletto trionfalmente nel 1972 fu cacciato appena due anni dopo sotto il bombardamento dell´informazione alimentata da scoop e «gole profonde», culminate nell´apoteosi paradossale del wiretapping, delle intercettazioni che Nixon aveva fatto su se stesso, con i microfoni nello Studio Ovale. Furono quelle registrazioni, che invano la Casa Bianca tentò di bloccare, subito castigata dalla magistratura, e le grossolane cancellazioni di 16 minuti di conversazione dai nastri, a essere la leggendaria «pistola fumante» che uccise la presidenza di «Tricky Dicky» Nixon.

Ma non tutto è Grande Storia. il ruolo di critica e di investigazione che l´informazione esercita è quotidiano e tormentoso, tessuto di piccole storie. Una sorverglianza naturale che si esercita non soltanto sui grandi eventi, ma sul piccolo, sul personale, sull´apparentemente marginale. Il caso che spinse la Corte a rendere legittima anche la pubblicazione di intercettazioni telefoniche illegali, nel 2001, riguardava il caso di una grande farmaceutica che aveva tenuto nascosti gli effetti collaterali dannosi di una propria medicina. E se una guerra come il Vietnam è perduta quando Walter Cronkite, al tg della Cbs già dominata da Ed «Buonanotte e buona fortuna» Murrow, la proclama perduta, e quando il New York Times, violando sfacciatamente la legge, pubblica i documenti segreti di Daniel Ellsberg sottratti al Pentagono, con la verità sul conflitto, il pubblico s´imbufalisce giustamente anche quando scopre che i dirigenti della finanziaria d´assicurazione Aig usano i dollari del salvataggio pubblico per organizzarsi viaggi di piacere e feste sontuose. Non un crimine, ma una sconcezza.

La distanza che separa la concezione euro Napoleonica del giornalismo da quella di Franklin o di Jefferson («se dovessi scegliere fra un governo senza la libera stampa e la libera stampa senza un governo, sceglierei la stampa») è celebrata nella lingua, in un neologismo attribuito al Presidente Theodore Roosevelt 1906 che non ha traduzione o corrispettivo in italiano: il «muckraker». È colui che usa il rastrello, il «rake», per rimestare nella sordida fanghiglia, il «muck», dei segreti pubblici e privati e arieggiare le stalle del potere. Fu quel rastrello che tormentò il presidente Ulysses Grant, il vincitore della Guerra Civile nel 1865, rimescolando gli scandali di favori e commesse e appalti, e a impalare il suo successere, Grover Cleveland, padre di figli allora detti illegittimi e raccontato come il «Tattoo Man», l´uomo tatuato dagli scandali.

In una nazione dove il «wiretapping», l´intercettazione di ogni forma di comunicazione, dalle telefonate alla posta elettronica, è addirittura la principale attività della misteriosa e gigantesca Nsa, la National Security Agency, che si propone di «ascoltare tutte le telefonate, fatte da tutti, in tutti i momenti» come fu confessato al giornale Usa Today e illegalmente arruolò le grandi società di telefonia, Att, Verizon a Bell South per fare il lavoro sporco nel nome della «sicurezza nazionale», tutti devono sapere di poter essere «ascoltati» e che quanto dicono potrà divenire pubblico, sotto la protezione della Costituzione. Il sacro «timor del Dio» dell´informazione libera accompagna ogni personaggio potente o celebrità, fino al Capo dello Stato che qui non gode di nessuna immunità civile o penale, come per due volte in una generazione la Corte Suprema costituzionale ha sancito, con Nixon nel 1974 e con Clinton nel 1998 ed è soggetto ai codici. E se Clinton sopravvisse alle pizze galeotte, agli abitini macchiati di Monica Lewinsky, alle bugie giurate davanti ai magistrati, che tutta l´informazione, di ogni parte politica, gli sparava contro, usando anche le privatissime parole che l´incauto presidente invaghito lasciava sulla segreteria telefonica della disponibile Monica, fu perché il partito di opposizione, il repubblicano, non aveva abbastanza volti nel Senato per condannarlo. Ma le confidenze dell´incauta Monica fatte all´amica Linda Tripp e registrate dalla Fbi e naturlmente sgocciolate via dai segreti istruttori, perché Washington è la città dove ogni rubinetto perde, erano già finite sui media.

Basta rovesciare l´assioma di Franklin e di Jefferson, mettere il bavaglio alla libertà di informare «senza favore né timore», come insegnava ai suoi redattori il fondatore del New York Times Adolph Ochs nel 1896, per capirne la funzione nella «vitalità» di una democrazia. Quando, per scelta, per timore, per pigrizia, anche il giornalismo Usa si autoimbavaglia, conseguenze sono sempre disastrose. Per accondiscendere alle richieste di John F Kennedy, proprio il New York Times tacque la notizia dell´imminente invasione di Playa Giron, la baia dei Porci a Cuba, una scelleratezza che lo stesso Kennedy avrebbe poi maledetto e che avrebbe condotto, due anni più tardi, il mondo sul limitare della guerra nucleare se non alla morte dello stesso JFK. Il «terrore del terrore», l´onda di patriottismo e di paura che investì anche i media dopo l´11 settembre spinse tutte le principali testate ad ingoiare acriticamente le favole bushiste sugli arsenali di Saddam Hussein e sulle inesistenti complicità irakene con al-Quaeda, i due principali argomenti di propaganda usati dalla Casa Bianca per «vendere la guerra». Fu una rinuncia collettiva alla funzione critica, lenita soltanto in parte dalla denuncia delle torture e degli errori in quella guerra che da quasi 10 anni si trascina nel sangue.

«Tacere una verità fa altrettanto male alla nostra comunità che diffondere una menzogna» scriveva Ben Bradlee del Washington Post che lasciò la direzione con il rimpianto di non essere mai riuscito a smascherare «quel mostruoso casinò che è Wall Street», una definizione che nell´autunno del 2008 avrebbe avuto la sua disastrosa conferma. Non c´è bisogno del sospetto di reati commessi, per muovere il rastrello nel fango, perché lo scandalo che demolisce il politico, il trombone, il predicatore non deve necessariamente assurgere al livello del codice penale, per funzionare. Basta l´ipocrisia, dunque la bugia scrostata. Il senatore Craig, gran castiga gay, sorpreso ad adescare uomini nelle toilette di un aeroporto, certamente non un reato, ma una miserabile e micidiale smentita alla sua retorica. Il governatore dello Stato di New York, Elliot Spitzer, che aveva spiegato alla gente i rischi di usare le e-mail e i messaggini, fu colto a farsi accompagnare da escort nei suoi viaggi di servizio, comunicando via messaggini e chiedendo sconti.

Se limiti ci sono alla spregiudicatezza dell´informazione ormai esplosa nella polverizzazione via Internet, stanno nella rincorsa ormai disperata dell´audience che ha trasformato gli augusti telegiornali di Murrow e Cronkite in magazine di "infotainment", poca informazione, molto intrattenimento, nella concentrazione industriale degli editori e nella faziosità che dilaga in Rete, nelle onde radio, ormai nelle tv via cavo che puntano sulla formula della «curva sud» per raccogliere tifosi. Ogni stagione, dal 1789 ai pigolii di Twitter che ora passano per informazione, ha le proprie sfide, le proprie trappole, i media che tramontano e quelli che sorgono, ma, almeno negli Stati Uniti, il fine resta lo stesso che sbalordì Alexis de Tocqueville, aristocratico ammirato e turbato da questa mostruosità chiamata democrazia. «La libertà di informazione è la sola difesa reale contro la tirannide della maggioranza».

Direttori uniti contro la legge

"La democrazia non vuole censure"

di Alessandra Longo

ROMA - Non era mai successo prima: i direttori di quotidiani di ogni tendenza, di televisioni, di agenzie di stampa, che sottoscrivono un unico documento, che si riconoscono nelle stesse identiche parole. E´ successo ieri. Il "miracolo" l´ha fatto Berlusconi e questo governo con il ddl sulle intercettazioni. Insieme, in coro, i giornalisti italiani (eccezioni pesanti il Tg1, Mediaset e La7), riuniti sotto l´ombrello della Federazione della Stampa, lanciano un appello: «Fermiamo questa legge. La democrazia e l´informazione in Italia non tollerano alcun bavaglio». Leggerete oggi queste righe di denuncia, che chiamano alla battaglia, indifferentemente su «Repubblica» e su «Il Giornale», su «L´Unità» e su «Il Secolo». Su quotidiani di provincia, piccoli e grandi, sui siti web, le ascolterete scandite nelle news televisive.

Un no forte e trasversale, un´indignazione collettiva, che ha la sua rappresentazione plastica nella sede Fnsi di Roma, sala dedicata a Tobagi (un nome più volte pronunciato in queste ore). Foto di gruppo dietro il palco. Ecco, tra gli altri, in prima fila, Mario Sechi («Il Tempo»), Norma Rangeri (manifesto), Luigi Contu (Ansa), Emilio Carelli (SkyTg24), Concita De Gregorio («Unità») Ezio Mauro, direttore di «Repubblica». Flash dei fotografi, dirette tv. E collegamento con il circolo della Stampa di Milano dove le telecamere inquadrano un altro raduno inedito. Stesso tavolo per Ferruccio de Bortoli («Corriere della Sera»), Vittorio Feltri («Il Giornale»), Mario Calabresi («La Stampa»).

C´è un bene comune da difendere. E´ a rischio la libertà di informazione, che non è un privilegio della corporazione dei giornalisti, ma un diritto dei cittadini. Destra e sinistra, presunto radicalismo e moderatismo, qui non c´entrano. Ferruccio de Bortoli prende la parola per primo da Milano: «Le misure contenute in questo disegno di legge sono pericolose per la democrazia. Questo provvedimento non ha come obiettivo quello di scongiurare gli abusi nella pubblicazione dei testi delle intercettazioni, che pure ci sono stati, ma esprime un´insofferenza per la libertà di stampa che dovrebbe preoccupare tutti». E infatti si preoccupano anche Feltri e Sechi, certo non in sintonia con le opposizioni. «Vogliono metterci all´angolo e zittirci – denuncia Feltri, nonostante il suo editore - mi auguro che la Consulta bocci questa legge». Con ciò dando per scontato che il ddl si farà. A dispetto di tutto e di tutti, a dispetto di quel che dicono ufficialmente i giornalisti italiani, i tanti cittadini riuniti proprio ieri al Teatro dell´Angelo, padrone di casa Stefano Rodotà, e persino a dispetto dei cauti distinguo di Confalonieri.

Fermiamo questa legge!, invocano i direttori nel documento proposto in primis da «Repubblica». Fermiamo non una legge sulle intercettazioni (cui è sottoposto tra l´altro lo 0,2 per cento della popolazione a smentire le cifre di Alfano) «ma una legge che riguarda la libertà - dice Ezio Mauro - Un provvedimento irragionevole, irrazionale, che spinge l´editore in redazione ad esercitare un sindacato di contenuto sulla pubblicazione della notizia». E´ il cosiddetto «ricatto», di cui parla, da Milano, anche Mario Calabresi: «Si punta a far fare da museruola agli editori. Se penso a come sono applicate le leggi in Italia, mi sembra scontato che si darebbe vita a grandi discriminazioni che, a loro volta, produrrebbero un´informazione selvaggia e insicura».

Parla uno, gli altri annuiscono. De Gregorio è preoccupata che, «in tempi di casta», la gente viva questa battaglia come un qualcosa di corporativo. Norma Rangeri vorrebbe coinvolgere in iniziative comuni anche la free press «che vedo sull´autobus tutti i giorni, ma non vedo qui». Franco Siddi, segretario Fnsi, padrone di casa, prende appunti. Raro clima di sintonia. Vedi vicini la finiana Flavia Perina e il compagno Dino Greco, direttore di «Liberazione». Nessuno si dà sulla voce. Prego parla tu, grazie adesso tocca a te. Accenti diversi. Contu non ha fiducia nella classe politica e nella sua capacità di redimersi, Carelli, con Orioli del «Sole», invoca ancora un tavolo di concertazione.

Miracolo: arriva la sintesi scritta. Si trovano, alla fine, «le parole adeguate», simili a quelle pronunciate ieri dal professor Rodotà nel buio del teatro dell´Angelo davanti a costituzionalisti come Alessandro Pace e Gianni Ferrara. Parole adeguate e anche pesanti. I giornalisti non chiedono ma «pretendono» di esercitare il loro dovere di informare. Un dovere che si incrocia con il diritto degli italiani a conoscere in quale Paese vivono.

L’appello dei direttori e delle redazioni

dei mass media

I direttori e le redazioni dei giornali italiani, con la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, denunciano il pericolo del disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche per la libera e completa informazione.

Questo disegno di legge penalizza e vanifica il diritto di cronaca, impedendo a giornali e notiziari (new media compresi) di dare notizie delle inchieste giudiziarie - comprese quelle sulla grande criminalità - fino all´udienza preliminare, cioè per un periodo che in Italia va dai 3 ai 6 anni e, per alcuni casi, fino a 10. Le norme proposte violano il diritto fondamentale dei cittadini a conoscere e sapere, cioè ad essere informati.

E´ un diritto vitale irrinunciabile, da cui dipende il corretto funzionamento del circuito democratico e a cui corrisponde - molto semplicemente - il dovere dei giornali di informare. La disciplina all´esame del Senato vulnera i principi fondamentali in base ai quali la libertà di informazione è garantita e la giustizia è amministrata in nome del popolo. I giornalisti esercitano una funzione, un dovere non comprimibile da atti di censura. A questo dovere non verremo meno, indipendentemente da multe, arresti e sanzioni. Ma intanto fermiamo questa legge, perché la democrazia e l´informazione in Italia non tollerano alcun bavaglio.

All'iniziativa della Fnsi hanno partecipato: Ezio Mauro (La Repubblica), Emilio Carelli (Sky Tg24), Roberto Napoletano (Il Messaggero), Concita De Gregorio (L'Unità), Norma Rangeri (il Manifesto), Dino Greco (Liberazione), Antonio Lucaroni (AGI), Luigi Contu (Ansa), Gianfranco Astori (Asca), Stefano Menichini (Europa), Carmine Fotia (Il Romanista), Carlo Bollino (La Gazzetta del Mezzogiorno), Andrea Covotta (in rappresentanza del direttore del Tg2 Mario Orfeo), Corradino Mineo (Rainews 24), Mario Sechi (Il Tempo), Stefano Del Re (Nuova Sardegna), Stefano Cappellini (vice direttore de Il Riformista), Stefano Corradino (Articolo21), Gianfranco Marcelli (vice direttore Avvenire), Altero Frigerio (Radio Articolo 1), Pierluca Terzulli (in rappresentanza del direttore del Tg3 Bianca Berlinguer), Flavia Perina (Secolo d'Italia). C'era anche il presidente della Fieg, Carlo Malinconico. Collegati in videoconferenza dal Circolo della stampa di Milano, il segretario dell'Assolombarda Giovanni Negri con Ferruccio de Bortoli (Corriere della sera), Vittorio Feltri (Il Giornale), Mario Calabresi (La Stampa), Peter Gomez (il Fatto Quotidiano) e Alberto Orioli (vice direttore de Il Sole 24 Ore).

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