In un momento in cui la produzione di cibo per nutrire un’umanità affamata ha un impatto fortissimo sugli ecosistemi naturali e in generale sul sistema planetario, è necessario non dimenticarci che la Terra può essere sia madre generosa che, sotto la pressione di un uso sconsiderato delle sue risorse, matrigna insidiosa.
Ecco allora che il titolo, apparentemente insensato e ovviamente provocatoriodell’incontro di oggi a Repubblica delle idee “Riusciremo a non mangiarci la Terra?” apre importanti riflessioni. La principale ci pone di fronte a una domanda: come stiamo abitando la nostra casa comune e che cosa resterà dopo il nostro passaggio?
Sembra una domanda velleitaria, eppure oggi la sopravvivenza della specie umana non può più essere data per scontata. Il modello di produzione con cui stiamo rispondendo ai nostri bisogni primari mette a rischio, per la prima volta nella storia dell’umanità, la possibilità di soddisfare quegli stessi bisogni in futuro. Il tutto mentre ci stiamo avvicinando a un’umanità che, nel 2050, raggiungerà i nove miliardi di viventi.
Gli sviluppi tecnologici e produttivi degli ultimi due secoli ci hanno liberato da una grande quantità di urgenze, specialmente quelle primarie. Accanto a questo, però, un modello turbocapitalista basato su un utilizzo massiccio di input esterni (si pensi che dal 1985 al 2005 abbiamo immesso nella Terra la stessa quantità di chimica che prima era stata prodotta e impiegata in un secolo) ha generato uno sfruttamento sconsiderato di risorse quali acqua, suoli fertili ed energia da fonti non rinnovabili che ha messo in crisi l’intero sistema.
Oggi siamo al dunque: se non cambiamo paradigma il nostro futuro è a rischio. Il cambiamento climatico è una realtà incontrovertibile e ufficialmente riconosciuta da tutta la comunità scientifica internazionale, l’utilizzo massiccio di fertilizzanti, pesticidi e antiparassitari sta impoverendo i suoli, le falde acquifere accumulano metalli pesanti diventando pericolose esse stesse e sempre più scarse, il patrimonio di biodiversità genetica della Terra si assottiglia pericolosamente.
Una situazione che ha spinto una delle più grandi autorità morali e politiche del nostro tempo, Papa Francesco, a esprimersi con forza su questi temi con un’enciclica che rappresenta un documento dirompente. Il Pontefice non ha usato mezzi termini parlando di un’economia che uccide e che penalizza in ogni parte del mondo le comunità locali, le produzioni di piccola scala e i mercati di territorio.
È evidente allora che occorre un deciso cambio di marcia e con esso nuovi modi di produrre, di distribuire, di commercializzare e di consumare il cibo, così come nuovi modi di convivere su un pianeta sempre più sotto la pressione di eventi drammatici come crisi ambientali, conflitti e migrazioni che ci obbligano a ripensare un futuro differente. E tuttavia siamo ancora in tempo. Bisogna raccogliere le migliori energie, i giovani, le donne, gli anziani, per disegnare un mondo nuovo, basato su valori che sostituiscano termini come competitività, mercato, efficienza e crescita con altri come reciprocità, cooperazione, comunità, condivisione.
Mi sento di dire che i cittadini sono pronti, che le nuove generazioni hanno già pienamente fatto propri questi valori e che in ogni parte del mondo si vedono segnali convincenti che questa sensibilità è già a tutti gli effetti una realtà viva e tangibile. Nascono reti, crescono movimenti di tutela ambientale, fioriscono comitati auto organizzati per prendersi cura dei beni comuni. Esiste un ritorno alla terra, un’attenzione crescente alle produzioni locali, un sistema di solidarietà e accoglienza che si batte per i diritti e l’accoglienza delle persone che scappano da guerre e calamità naturali.
Abbiamo un solo pianeta da abitare e condividiamo tutti un destino comune, per questo anche la risposta non può che essere comune. Possiamo solo guardarci in volto e unire gli sforzi, il futuro nostro e dei nostri figli si gioca oggi, nelle nostre case, nelle nostre città. Non possiamo, e non vogliamo, mangiarci la Terra.