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Franco Cordero
Con una legge si vuole abolire l’eguaglianza di fronte alla legge
13 Aprile 2004
I tempi del cavalier B.
Un articolo di Franco Cordero su Repubblica del 17 giugno 2003.

Martedì 17 B. degna il Tribunale d’un secondo show nel dibattimento Sme. Ventiquattr’ore dopo dall’alambicco della Camera bassa nascerà la legge che sospende i suoi processi. Parliamone. L’ordinamento è una piramide: tante norme situate a vari livelli, insegna Hans Kelsen, maestro della sintassi giuridica novecentesca; quelle al vertice fungono da tavola genetica, stabilendo come nascano le altre e a quali parametri ubbidiscano. Nell’art. 3 Cost., ad esempio, «tutti i cittadini (...) sono eguali davanti alla legge», indipendentemente dal rispettivo stato «personale e sociale»: tutti, nessuno escluso, dal povero diavolo al signore dell’etere, spaventosamente ricco, nella cui corte brulicano famigli, clienti, manovali, anche acquisisse alte dignità; eguale a tutti, subisce processi penali quando un pubblico ministero gl’imputi dei reati. Supponiamo che assemblee servizievoli, forti dei numeri, gli conferiscano uno status diseguale, d’immunità dalle macchine processuali: norma invalida, se la votano nei modi soliti; l’organo chiamato ad applicarla investe della questione la Corte competente e l’esito appare sicuro.

Non erano ipotesi scolastiche. Palazzo Madama fornisce esempi monstre, 5 giugno, emendando un ddl che attua scandalosamente l’art. 68 Cost.: del quale precedente testo bisognerà dire tutto il male che merita; l’idea risale alla Bicamerale d’infausta memoria; affiorano omertà trasversali. Gl’inquilini della Cdl v’innestano un art. 1: i cinque presidenti (della Repubblica, Senato, Camera, consiglio dei ministri, Corte costituzionale) godono d’un limbo finché durino i rispettivi uffici, anche sui fatti anteriori; sospesi i procedimenti «in ogni fase, stato o grado». Sono angeli? No, animali umani e «cittadini» eguali «davanti alla legge». Questo privilegio li discrimina invalidamente. L’art. 3 Cost. è derogabile solo attraverso norme pari rango: l’articolo votato da forzaitalioti e soci è legge comune; dunque, nasce morto. Non perdiamovi tempo, tanto salta agli occhi l’offesa al principio d’eguaglianza. Notiamo solo come la esasperino due aspetti. Primo, non esistono termini finali. Quattro dei predetti uffici sono indefinitamente reiterabili: in vent’anni, 1878-98, Domenico Farini risulta eletto presidente 4 volte dalla Camera bassa e 8 nel Senato; dal 1870 al 1898 Giuseppe Biancheri dura 14 anni sullo scranno più alto a Montecitorio, eletto 15 volte (erano congiunture mobili); Agostino Depretis presiede 8 gabinetti; Giolitti 5; Benito Mussolini governa 20 anni, 8 mesi, 25 giorni. Ora, processi sospesi sine die significano impunità se l’imputato fosse colpevole. Le norme incriminanti sono parole inerti fuori dal processo, l’ostacolo al quale diventa immunità penale

Altrettanto allarmante il secondo aspetto: gli augusti patres, blu, bianchi, ex-neri, scrivono: «Non possono essere sottoposti a processi penali» e nel lessico tecnico il nome indica la sequela d’atti aperta dall’imputazione; le indagini stanno fuori, ma l’interessato a schivarle sosterrà che la formula abbia senso lato. C’è una parola galeotta nel comma 2: quando parlano dell’intero processo, tecnicamente inteso, i compilatori dicono «in ogni stato e grado»; stavolta il binomio diventa trinomio, «ogni fase, stato o grado». Cosa succede quando bisogni acquisire prove non rinviabili? Ad esempio: la testimonianza del morente; l’atto ricognitorio che perderebbe gran parte del valore se fosse differito, essendo labili le impressioni mnemoniche; perizie la cui materia deperisca presto. In casi simili gli operatori usano l’incidente probatorio: atti istruttori anticipati, destinati a valere come fossero compiuti nel dibattimento; ma gl’incidenti probatori sono atti processuali, vietati nel comma 2. Altrove il caso è previsto: la sospensione non impedisce il compimento degli atti urgenti (artt. 47, c. 2; 70, c. 3; 71, c. 4; 344, c. 3). Gli artisti del tempo perso sfoderano un bolso latino: «ubi lex voluit, dixit»; e sapendo come, dove, a qual fine nascano certe meraviglie legislative, quel silenzio assume significati sinistri. A parte l’eguaglianza postulata nell’art. 3 Cost., esiste l’art. 112: «il pubblico ministero ha l’obbligo d’esercitare l’azione penale», regola necessaria al sistema, perché se la scelta d’agire o no fosse libera, i reati diventerebbero materia disponibile, con una virtuale impunità delle persone gradite ai dominanti; quel che invocano filosofi, cappellani, araldi berlusconiani, seguiti dagli opinanti pseudoliberali. L’art. 112 è una delle loro bestie nere.

Notiamo infine quanto poco generale e astratta sia la previsione. L’art. 1 contempla alti uffici: il presidente del Consiglio viene quarto ma l’utente del trucco è B.; se le cause milanesi fossero finite a Brescia, nessuno chiamerebbe alla ribalta i 5 presidenti. Come avviene da due anni, le Camere lavorano pro domino, tagliando leggi sulle sue abnormi misure. Dei santoni prestano viso e ugola alla farsa. Nasce morto il cosiddetto lodo e tale rimarrà a Montecitorio, mercoledì 18. I piccoli Tartufi acclamanti lo sanno: è tutto calcolato; lavora anche nelle Camere l’équipe cavillante alla quale il Boss, ciarliero, quindi spesso incauto, paga parcelle astronomiche mai sognate nell’avvocatura (lo racconta lui; ai bei tempi avvocati insigni, ancora attivi sui 90 anni, morivano quasi poveri: sia permesso nominarne due, Arturo Carlo Jemolo e Alfredo De Marsico). Passeranno mesi prima che la Consulta dichiari invalido l’art. 1: nel frattempo rivive l’immunità parlamentare, esumata dopo 10 anni con lievi varianti; e gloriosamente le due Camere ridiventano luogo d’asilo, dove i re del malaffare abbastanza abili da scegliersi la compagnia giusta, ne filano quanto vogliano, intoccabili. L’ostetrico del parto macabro assale un ex-Capo dello Stato e la ciurma blu ringhia a comando. Nelle stesse ore l’Immune proclama da Brescia che «rivisiterà» codici e ordinamento giudiziario. Traduco, caso mai qualcuno non capisse: vuole pubblici ministeri governativi agli ordini del castigamatti padano, giudici malleabili, procedure à la carte, sicché le condanne colpiscano solo i malvisti da chi comanda. Alla sera tiene filastrocche televisive un capovoga An, il cui partito 10 anni fa mandava alla lanterna i politicanti dalle mani sporche: i tribunali non interferiscano obliquamente nella cosa politica giudicando B., accusato d’essersi comprato delle sentenze; esiste un voto del popolo sovrano, ecc. Il meglio viene l’indomani, venerdì 6, quando Sua Maestà B., maglione da yachtman al collo, svela la seconda mossa: incidere organicamente nel sistema, varando l’immunità parlamentare su modello europeo; verrà utile agli oppositori, sogghigna, perché «modello europeo» significa apparati giudiziari comandati dal ministro. Sabato 7 celebra l’idea della pena inesorabilmente applicata a chiunque risulti colpevole. L’11 non l’aspettino nel dibattimento Sme, dove aveva annunciato dichiarazioni da scuotere l’asse terrestre: l’argomento non interessa più; dopo il Milan europeo la questione palestinese è l’ultimo «legittimo impedimento»; ormai ha uno scudo nel lodo. Povera giustizia, illo tempore corrotta sul Tevere, adesso strangolata e schernita tra Naviglio, Olona, Lambro. Più che gaffes da loquela sbracata, sono allusioni, avvertimenti, sberleffi (ha sotto mano gli specialisti, ghost writers e ventrìloqui). Siccome straripa, coatto a ripetersi, bisogna ridirglielo: lazzi simili hanno un nome tedesco, «Galgenhumor», umorismo da forca; già che ci siamo, gli rammento ancora il nome greco della soperchieria intollerabile dall’Olimpo, «pleonexìa». Spesso le metafore mitologiche mascherano fini analisi. Lasciamo stare gli dèi: esiste un sensorio collettivo; sinora l’ha addormentato a metà, ma è sicuro che l’anestetico lavori all’infinito?

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