il manifesto, 9 ottobre 2016 (c.m.c.)
Ogni giorno quarantaduemila persone si mettono in cammino nel mondo per fuggire dalla morte e dalla disperazione. Oggi, in tanti e diversi, ci aggiungeremo a loro, camminando da Perugia ad Assisi. Il loro dolore, la loro angoscia, sono, in qualche modo, anche i nostri perché li sentiamo vicini, sentiamo le loro grida di aiuto, vogliamo fare qualcosa, reagire, rispondere, proteggere. Per molti, noi siamo semplicemente matti, anime belle ma inconcludenti perché pensiamo di affrontare questi problemi con una marcia della pace e della fraternità. Ma è solo un altro modo per tirarsi fuori e restare comodamente seduti nel proprio giardino di privilegi e illusioni.
Il problema è che si sentono in pace mentre siamo in guerra. Una guerra vera, anche se molto diversa da quelle del passato. Una guerra mascherata da pace. Una guerra combattuta in gran parte da altri, lontano da noi, che ci consente di pensare ai fatti nostri, al nostro tornaconto, a ciò che ci interessa e ci conviene. Per questo il momento è difficile: perché dobbiamo cambiare radicalmente mentre sembra che possiamo continuare la vita di sempre.
Ogni tanto una foto, un’immagine, un attentato, una tragedia, un fatto ci colpisce e abbiamo un soprassalto di consapevolezza, di coinvolgimento. Ma dura poco. Ciascuno è interessato ai fatti che lo coinvolgono direttamente, sul momento. I fatti che hanno un impatto sul medio o lungo periodo o che non ci coinvolgono immediatamente, vengono costantemente rimossi o derubricati. Per egoismo, per indifferenza o per ignoranza. Ma anche per un problema di prospettiva. Questo è tempo di chiusure. Non solo di frontiere.
Non alziamo più la testa dal francobollo di terra che calpestiamo. Chiudiamo gli occhi sul mondo mentre il mondo diventa sempre più interconnesso e interdipendente. Chiudiamo gli occhi sul futuro perché continua a sorprenderci e ci inquieta. Non c’è niente che possa competere con le cose che ci occupano o preoccupano, qui e ora. Del resto, siamo ostaggio di un sistema mediatico che accende e spegne le nostre attenzioni con la stessa velocità con cui cambiamo il canale in televisione.
Nel frattempo, i fatti si muovono, si susseguono, si moltiplicano, si complicano modificando rapidamente la realtà, sconvolgendo le nostre convinzioni, costringendoci a fare i conti con problemi sempre più difficili e complessi.
Di fronte a questa realtà pressante, partecipare ad una marcia della pace e della fraternità vuol dire vincere l’indifferenza, la rassegnazione, la sfiducia, recuperare la capacità di pensare, di agire e non solo re-agire, di farlo assieme e non da isolati.
Con la Marcia Perugi-Assisi, noi proviamo a fare un certo numero di cose allo stesso tempo.
Riconnetterci con il dolore del mondo perché il dolore ci rende tutti più umani. La sofferenza delle persone sta crescendo in tante parti del mondo come nelle nostre città, nelle nostre famiglie. Grazie alle tecnologie della comunicazione aumenta la conoscenza e la percezione di questo dolore diffuso. C’è il dolore terribile, angosciante di tutte le persone che stanno agonizzando per la fame, la sete e la mancanza di cure (di questi giorni la Nigeria, lo Yemen,..), di quelle che sono martoriati dalle bombe e dal terrore ad Aleppo o in qualche altro mattatoio dimenticato, di quelle che cercano di scappare, di quelle che perdono il lavoro, che non riescono a trovarlo, delle donne abusate, violentate,… E c’è il dolore dell’anima.
Il dolore che ci portiamo dentro, il dolore profondo della vita che viene da un malessere diffuso e accompagna il senso di inquietudine e smarrimento. E poi c’è, sempre più evidente, il dolore della natura che a forza di alte temperature, di bombe d’acqua, di scioglimento dei ghiacciai, di innalzamento del livello dei mari e di desertificazione manifesta le conseguenze dei disastri che abbiamo causato. «Restiamo umani» ci implorava Vittorio Arrigoni dalla Striscia di Gaza. È arrivato il tempo di andare a ripescare la nostra umanità nel mare in cui l’abbiamo lasciata sprofondare.
Ri-unire gli operatori di pace, invitarli a uscire allo scoperto, radunare le forze sparse, ri-unire le energie positive, le persone che hanno deciso di non rassegnarsi, di assumere le proprie responsabilità, di cercare di capire cosa non va nel nostro modo di vivere e di «fare società», di cambiare qualcosa nella propria vita e di unirsi ad altri per capire come costruire nuovi rapporti economici, sociali, internazionali e con la natura. «Da isolati – diceva Aldo Capitini – non si risolvono i problemi».
Accendere i riflettori sulle tante cose positive che succedono, le cose semplici che moltissime persone fanno senza aspettare qualcun altro, i tanti modi in cui si fa «pace», i tanti piccoli passi quotidiani verso una società di pace. E così, rendere le nostre azioni individuali e collettive più forti e contagiose.
Investire sui giovani e sulla scuola. Alla Perugi-Assisi partecipano più di cento scuole di tutt’Italia con migliaia di giovani studenti. Per ciascuno di loro la marcia è l’occasione per dare avvio o proseguire un percorso di educazione alla cittadinanza glocale avviato da dirigenti scolastici e insegnanti che cercano di trasformare la scuola in un luogo dove si studia e s’impara la pace. Preparare i giovani a vivere da cittadini consapevoli e responsabili in un mondo globalizzato, interconnesso e interdipendente, in continuo, rapido cambiamento, è uno dei compiti più urgenti della scuola e della nostra società. Partecipare alla Marcia, organizzarne un pezzetto, vuol dire fare uno dei tanti «esercizi» di pace necessari per imparare a farla tutti i giorni.
Fare pace a km 0. Affrontare il tempo difficile che è arrivato imparando a fare pace nelle cose che facciamo, nei luoghi in cui operiamo, nelle nostre città-mondo. Le nostre città non sono isole ma spazi attraversati, spesso investiti, dalle correnti di tutto il mondo. Dobbiamo pensare alle nostre città-mondo come un laboratorio del mondo nuovo che vogliamo costruire.
Nelle nostre città, nei territori possiamo fare molte cose: svelare le basi militari evidenti e nascoste e gli interessi collegati, fare pace con la nostra gente sempre più sola, ansiosa, rancorosa, ritrovare il noi che può aiutare l’io, ricomporre le comunità, un pensiero comune, imparare a prenderci cura gli uni degli altri e dell’ambiente, investire sui giovani e sulla loro formazione, lottare contro ogni forma di violenza e di esclusione sociale, organizzarci per accogliere chi arriva da altri mondi, rimettere al centro il lavoro, costruire un’economia solidale… Se lo possiamo fare, abbiamo la responsabilità di farlo! Nella convinzione che tutto quello che faremo per la pace nelle nostre città contribuirà alla costruzione della pace nel mondo.
Gettare le basi per una politica nuova. «Il mondo si sta riscaldando pericolosamente e i nostri governi si rifiutano ancora di prendere i provvedimenti necessari per fermare questa tendenza» ha detto qualche tempo fa Naomi Klein. Ma il problema come sappiamo non è solo climatico. Non c’è uno spazio pubblico internazionale dove non si respiri un’aria di tensione e di scontro: tutti contro tutti. Veniamo da un lungo tempo dominato dalla cecità e dalla sordità politica ed economica. E ora che cominciano a essere tragicamente evidenti i segni dei disastri che abbiamo provocato, a spadroneggiare sono gli egoismi e la sfiducia.
Tutti i mali che per un certo tempo avevamo rimosso sono tornati: guerre, nazionalismi, muri, xenofobia, corsa al riarmo, trafficanti di armi e di spese militari…E, all’ombra di una democrazia e libertà sempre più virtuali, scorrazzano gli imprenditori della paura e i fomentatori d’odio.
Per fermare le guerre, fare le paci, azzerare la fame, debellare la sete, sradicare la miseria, proteggere il pianeta avremmo bisogno di politici straordinari, dotati di visione e molto coraggio. Se non li troviamo, non possiamo fare altro che assumerci anche questa responsabilità. Non ci sarà mai pace senza una vera politica di pace. La speranza che coltiviamo anche oggi è che, insieme, possiamo generarne una davvero nuova.