Un'analisi "sfogo" e una ricetta sicura per vincere la depressione relativa alle vicende degli scali ferroviari dismessi di Milano, Arcipelago Milano, online, 13 giugno 2017 (m.c.g.)
Pare che la depressione colpisca sempre di più, (Organizzazione Mondiale della Salute – aprile 2017), e che sia una della principali cause di suicidio, 780.000 casi nel mondo l’anno scorso, perché una causa della depressione è la mancanza di “speranze”: la Hopelessness Depression (HD). Pensando agli scali mi deprimo ma non mi suiciderò, ho trovato l’antidoto, pare sia un “classico”: l’incazzatura.
Sono incazzato perché vedo che per gli scali le cose vanno avanti come se nulla fosse sebbene una parte non trascurabile dell’opinione pubblica “avvertita” cerchi di raddrizzare le gambe al cane.
M’incazzo perché penso che tutto sia cominciato quando si poteva fermare e non lo si è fatto. Poco dopo l’elezione di Pisapia a sindaco, il Piano di Governo del Territorio, quello voluto dal duo Moratti Masseroli, un piano vecchio stile all’insegna dell’ossequio agli interessi immobiliari e del tutto indifferente al bene comune della città, s’incagliò per un errore procedurale. C’era l’occasione di mandare a monte tutto ma si preferì mandarlo in porto per non dare l’impressione di voler fermare tutto, si sarebbe detto: arriva la sinistra nemica di quelli che chiama “speculatori”, un suo vezzo demagogico. Fu rielaborato un piano modificato per quel poco che si poteva accogliendo le osservazioni disponibili utili a smorzarne gli effetti più dirompenti. Tanto l’edilizia si era fermata.
Pensavo che la politica urbanistica del duo Pisapia De Cesaris fosse una svolta. Non lo era. Semplicemente la pressione degli operatori immobiliari si era arenata nelle secche di un mercato inesistente. Ma sottotraccia un operatore immobiliare che guardava lontano c’era: un Ligresti vestito da pubblico, le Ferrovie dello Stato. Il pelo cambia ma il vizio resta.
Poi l’Accordo di Programma che poteva sancire la sconfitta del bene comune, la subordinazione della città e del suo patrimonio agli interessi immobiliari – a un nuovo Ligresti -, questa volta si arena nelle secche di un Consiglio comunale che si scopre scavalcato, ridoto a ruolo di notaio delle decisioni della Giunta.
M’incazzo a posteriori con me stesso: quando l’assessora De Cesaris disse di aver raggiunto il miglior accordo possibile con le Ferrovie dello Stato, e lo portò in Consiglio, me ne rallegrai invece di mettermi un nastro nero al braccio come si faceva una volta per mostrare il lutto: lutto per la morte della speranza di una nuova urbanistica. La fortuna mi ha consolato: l’accordo non è stato ratificato, è ancora lì, speriamo.
M’incazzo perché quando nel programma di Sala ho visto che al primo punto c’era la sistemazione degli scali ferroviari ho sperato che avesse riflettuto sul problema e su quello che era successo in Consiglio comunale. L’Accordo di Programma poteva essere ben diverso da quello bocciato dal Consiglio: sostanzialmente è ancora quello. L’eredità della vecchia Giunta pesa ancora.
M’incazzo perché vedo un assessore all’urbanistica, digiuno della cultura necessaria, gestire il futuro di Milano e che dichiara di aver aperto le porte alla partecipazione dei cittadini senza nemmeno saper bene che cosa sia la partecipazione: dire, come dice, che molte migliaia di persone hanno “partecipato” solo perché erano a un convegno o a una riunione, compresi coloro che hanno “visto “ i progetti sugli scali, le Visioni dei cinque studi di architettura, vuol dire non aver capito nulla. Noto tra l’altro che in molti incontri ai quali ha partecipato l’assessore, le voci di dissenso sono state parecchie, inutili, non se ne troverà traccia nel nuovo Accordo di Programma.
M’incazzo quando sento il consigliere Monguzzi dire che la nuova “mozione” di indirizzo sugli scali è “un segnale contro la speculazione” semplicemente perché avendo aumentalo l’altezza degli edifici residenziali previsti e quindi riducendo la loro superficie al piede ci sarà più verde. La storiella dell’edilizia convenzionata poi, che si fa solo quando quella libera si muove, non la beviamo più.
Ma m’incazzo soprattutto quando vedo che tutto si muove senza che vi sia stata una seria “analisi dei bisogni” della città, che avrebbe potuto evitare in futuro almeno clamorosi errori come quelli fatti in passato quando il Comune non ci pensò nemmeno di offrire alternative migliori all’Istituto Europeo di Oncologia di Veronesi purché non andasse a collocarsi in fondo a via Ripamonti, lontano da qualunque mezzo pubblico. E l’Humanitas? Ed Expo? E poi e poi ….
M’incazzo quando vedo che si convocano dei tavoli “tecnici”. I tecnici servono per dar corpo a un progetto a valle dell’analisi dei bisogni, analisi che prelude a ogni decisione “politica” che va comunque fatta: i tecnici sono la foglia di fico di chi non sa fare scelte politiche, tecnici che per quanto capaci non sostituiscono la politica.
M’incazzo perché, ingenuo, non ho ancora capito che l’analisi dei bisogni non si fa perché, se fosse fatta nell’interesse pubblico, molto ma molto difficilmente coinciderebbe con i “bisogni” degli operatori immobiliari.
M’incazzo ma non mi uccido perché ho ancora qualche speranza. Vedo passare il tempo a chiudere grossolanamente e a posteriori le falle più vistose dell’elaborazione e della partecipazione, dando spazio a ogni tipo di opposizione. C’è ancora tempo per fare un’analisi dei bisogni – i dati già raccolti non mancano – e a valle di questa rileggere tutto il prezioso lavoro fatto tra tavoli, e commissioni e convegni: ritrovare la razionalità. Lo scontro politico vero si può fare solo sui bisogni, la loro valutazione e le priorità. Chi vuole qui potrà ritrovare destra e sinistra. Dopo ma solo dopo sugli strumenti.
Ebbene sì, vinco la depressione incazzandomi. “M’incazzo ergo sum” (Suivant Descartes, 2017).