huffingtonpost online, 1 febbraio 2017 (p.s.)
In un saggio del 1963, "Radicalism and the organization of radical movements", il sociologo cecoslovacco Egon Bittner definiva il radicalismo come reazione di rigetto rispetto al "normale e tradizionale" orizzonte assiologico vigente in un dato gruppo sociale e in un determinato momento storico. Essere radicali significa, per lo studioso, interiorizzare una serie di modi di agire, pensare e sentire che si pongono in antitesi con lo spirito del proprio tempo.
Questa prospettiva mette in luce l'essenziale: la radicalizzazione non è un processo socio-cognitivo che riguarda solamente terroristi irriducibili e sanguinari quanto, al contrario, costituisce una dinamica ricorrente nella vita quotidiana di ogni attore sociale. Percorrere contromano un senso unico, per intenderci, significa essere, a proprio modo, radicali.
Quando Bittner scriveva, erano anni nei quali il mondo degli intellettuali stava ancora cercando di razionalizzare il misterioso geroglifico che aveva condotto l'umanità occidentale nel baratro di due disastrosi conflitti che, erodendo le fondamenta della ragione, avevano provocato uno stato di barbarie e distruzione. È quantomeno sorprendente, tuttavia, che la lezione di Bittner sia stata quasi completamente ignorata nel dibattito attuale sulla radicalizzazione.
In particolar modo, nonostante tale dibattito abbia consentito di far luce su ogni singolo aspetto del percorso socio-psicologico che conduce un individuo "normale" verso la violenza politica e religiosa, ci si è completamente dimenticati che le stesse identiche dinamiche incidono sulla radicalizzazione, eguale e contraria, della quota parte di società che combatte la radicalizzazione. In parole più semplici, non è stato compreso che le dinamiche che regolano la radicalizzazione della violenza islamica sono in realtà le stesse che determinano quella che definisco "radicalizzazione dell'Occidente" nei confronti dell'Islam.
Per spiegare tale concetto occorre, tuttavia, fare un piccolo passo indietro, definendo cioè quali sono le macro-componenti della radicalizzazione, cioè di quel processo socio-cognitivo che porta un individuo "normale" ad acquisire una mentalità radicale che potrebbe condurlo verso la crescente volontà di sovvertire l'ordine esistente. Gli studiosi dividono la radicalizzazione in due sotto-processi che prendono il nome di radicalizzazione cognitiva (l'acquisizione mentale di una ideologia radicale) e comportamentale (la progressiva disponibilità all'azione violenta).
La violenza verbale, fisica, virtuale e terroristica, trova sempre la sua genesi nella selva psico-cognitiva del pensiero individuale. Spiegare la radicalizzazione significa, quindi, dipanare la matassa della mente dell'individuo che si radicalizza, tenendo a mente l'ironica provocazione di Joseph Margolin secondo cui "il terrorista" - e, dunque, ogni uomo - «è prima di tutto un uomo». Proprio da lì occorre partire.
La frustrazione come causa profonda della radicalizzazione
Per spiegare la dinamica della radicalizzazione del «noi contro di loro», cioè la reazione di rigetto del mondo Occidentale nei confronti dell'Islam, parto dal concetto di frustrazione e dai suoi effetti sulla vita delle persone. Nel 1954, lo psicologo statunitense Maslow Abraham propose una gerarchizzazione piramidale dei bisogni umani, suddividendoli in 5 macro-categorie: fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima e di autorealizzazione.
La relazione tra bisogni e soddisfazione, secondo Maslow, è di inversa proporzionalità. Più precisamente, considerati i bisogni fisiologici come la base della piramide e quelli legati all'autorealizzazione il vertice, la probabilità di soddisfare i secondi sarà di gran lunga inferiore rispetto ai primi. Questo comporta, inevitabilmente, una frustrazione crescente nell'uomo: al crescere dei bisogni, diminuiscono le possibilità di soddisfarli.
Questo è particolarmente evidente nelle moderne civiltà occidentali, dove il progresso ha generato crescente benessere materiale, consentendo a miliardi di persone di riempire la base della piramide di Maslow. Tuttavia, il progresso materiale non offre particolari risposte per quanto riguarda i bisogni di livello superiore, e cioè quelli legati, per così dire, alla dimensione spirituale della vita degli umani. Soddisfare lo spirito significa sentirsi appagati mentalmente, essere in pace con sé stessi, col mondo circostante, significa costruire un solido architrave attorno a cui erigere le "pareti" della propria esistenza terrena. L'ascensione della piramide è paragonabile all'arrampicata di uno scalatore: lenta, stancante e, talvolta, impossibile da terminare.
Date queste premesse e nonostante la realizzazione dei bisogni spirituali sia un percorso che ha come durata la vita stessa dell'uomo, in determinate circostanze e in date congiunture storiche segnate da crisi globali, sfiducia nel progresso umano e ultra-individualismo nelle relazioni, tale frustrazione assume delle caratteristiche ben precise, passando da essere la causa di un problema allo strumento per combatterlo. Gli individui soggetti alla frustrazione crescente della propria autorealizzazione cominciano improvvisamente a temere, non solo di essere giunti al termine del cammino di avvicinamento a essa, ma anche di dover difendere la propria posizione raggiunta dal rischio di perdere terreno, aggrediti da minacce esterne.
L'ideologizzazione della frustrazione
Qualora rimanga un fenomeno relegato alla mera vita privata di un individuo, la frustrazione non coincide con la radicalizzazione. Come sostiene il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar in un suo studio illuminante sulla radicalizzazione islamica nelle carceri francesi, la frustrazione è un parametro insufficiente per innescare la radicalizzazione. L'individuo frustrato, infatti, potrebbe reagire alle sue inquietudini chiudendosi in sé stesso, senza cercare in alcun modo la via del riscatto. La frustrazione - fattore determinante per la radicalizzazione dell'Occidente nei confronti dell'Islam - necessita di un solvente, di un catalizzatore che ne faciliti la trasformazione. La source del passaggio dalla frustrazione alla sua dimensione applicativa è costituita dall'ideologia, in un processo che Khosrokhavar definisce «ideologizzazione della frustrazione».
Nonostante la civiltà contemporanea si definisca post-ideologica, ritengo che le nuove organizzazioni politiche anti-sistemiche e populiste rappresentino il condensato più evidente di come l'ideologizzazione dei gruppi sociali sia un fattore preponderante e tutt'altro che scomparso.
Un'ideologia trasversale, che non ha più i connotati dei vecchi impianti del Novecento, ma che, comunque, ha il potenziale sufficiente per innescare una nuova forma di conflitto sociale che, come scrissi a margine dell'elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti, «non ha più il suo fine nella conquista dei diritti, ma nella difesa di privilegi» e, addirittura, nell'introduzione di nuovi privilegi in opposizione frontale rispetto a chi, al contrario, vuole solamente garantire diritti.
Il successo dei movimenti anti-sistema, che trascendono i confini, deriva dal fatto che «sono tutte manifestazioni dello stesso fenomeno, che affonda le sue radici in una paura ormai radicata nell'inconscio di una maggioranza perlopiù silenziosa, ma che trova espressione politica in una narrativa rassicurante», estremamente "autoreferenziale" e capace di generare "una sorta di psicosi collettiva".
Qual è l'origine di tale paura? La frustrazione individuale per l'impossibilità di progredire nella marcia di soddisfazione dei propri bisogni, provoca la necessità di trovare appiglio nel mondo reale per lenire, almeno parzialmente, la propria angoscia esistenziale.
Questo processo virale, che si autoalimenta grazie anche ai mezzi di comunicazione, all'incessante creazione di "bufale" e, soprattutto, al fatto che ci siano persone che le prendono per vere, porta come logica conseguenza al settarismo e alla necessità di difendersi dal pericoloso assedio di agenti esogeni che minacciano direttamente i nervi scoperti della propria persona. Gli agenti patogeni, percepiti come origine della frustrazione, sono spesso identificati nell'"altro", nel "diverso", in chi si discosta dal proprio gruppo sociale di riferimento (per esempio, musulmani e migranti). Attraverso una narrativa riduttiva e semplicistica, viene a costituirsi un nuovo e potentissimo serbatoio ideologico.
L'operazionalizzazione della frustrazione
Chiunque ritenga ancora che l'ideologizzazione della frustrazione non sia, in realtà, un esempio di ideologia, non mette a fuoco l'essenziale. L'ideologia costituisce, da sempre, un complesso sistema di norme condivise da un dato gruppo sociale e che, in quanto tali, hanno un potente valore coattivo per i membri del gruppo. Per misurare la presenza di una narrativa condivisa, di un insieme di valori interiorizzati negli aderenti a tali movimenti, basti prendere come esempio il contenuto tematico ricorrente, verificabile nelle interazioni tra gli utenti delle varie piattaforme social, mentre esprimono la propria posizione su determinate tematiche.
Facendo questo esercizio, si potrà verificare con estrema facilità come funziona, da un punto di vista pratico, la frustrazione, nel momento in cui essa diventa ratio e guida per l'azione. Parole come "perbenismo", "buonismo", "ripulire", "povertà", "carestia", "miseria", "invasione", "questa gente/noi", ricorrono con un'insistenza maniacale, anche in frasi totalmente decontestualizzate. Detto in altri termini, fanno parte di un alfabeto parallelo costruito ad hoc dai membri di tali movimenti. In breve: la parola "ripulire", per esempio, ha raggiunto un tale livello di significatività da essere immediatamente visualizzabile e di grande efficacia.
Nel momento in cui si passa dalla fase della frustrazione alla fase della cyber-lotta per procura, avviene, definitivamente, quella che potrebbe essere denominata "operazionalizzazione della frustrazione", che sancisce il passaggio dalla radicalizzazione cognitiva alla radicalizzazione comportamentale. Si potrebbe obiettare che la radicalizzazione di un movimento anti-sistemico è differente da quella verso il terrorismo, in quanto mentre il primo produce morte e brutalità, il secondo genera, al massimo, odio virtuale.
Chi scrive, al contrario, ritiene che, i fattori che guidano la radicalizzazione cognitiva finalizzata al terrorismo e quelli che operazionalizzano la frustrazione siano gli stessi. Sottolineare una forte soluzione di continuità tra i due fenomeni significa ignorare completamente un concetto fondamentale: le manifestazioni di violenza verbale online, pur non producendo morte, sono atti gravissimi di violenza che potrebbero generare conseguenze irreversibili nelle vittime.
L'operazionalizzazione della frustrazione è un processo multifasico, i cui tratti ricorrenti sono i seguenti: frustrazione, individuazione della causa della stessa, ricetta per curarne gli effetti. Tutto comincia con la descrizione, ovvero la narrazione della frustrazione: "questa gente vuole rubarci il lavoro e imporci di aderire alla loro religione, svilendo i valori fondanti dei nostri antenati".
Poi si passa all'individuazione delle cause della frustrazione: «L'invasione islamica porterà allo stermino di noi cattolici ed ebrei, e se non fermiamo - noi italiani in primis - questa invasione, i nostri futuri figli non avranno neanche un lavoro, una casa, e una famiglia. Se è questo quello che volete buonisti, allora andate a vivere con loro: noi stiamo sia con Trump che con Israele. Israele fa bene a massacrare tutti i musulmani, e Trump fa bene a non fare entrare gli islamici nel suo paese, è ora che impariamo sia da Trump che da Israele».
Infine, si propone la ricetta per curarne gli effetti: «Siamo proprio ben messi, che schifo! Ripulire l'Italia da questa gente che porterà solo miseria e carestia per noi italiani senza contare tutte le malattie che non avevamo più ritorneranno e per causa loro sarà la fine della nostra specie».
I virgolettati appena riportati sono commenti di utenti di movimenti politici anti-sistema, su differenti piattaforme social. Si tratta di un esempio pertinente, utile per capire il funzionamento della radicalizzazione dell'Occidente. Si parte da una narrativa che, denunciando uno stato di pesante frustrazione legato alle condizioni materiali e spirituali del vivere presente, rintraccia nei gangli della società degli elementi patogeni di imperfezione e di impurità, che devono essere estirpati per evitare la «fine della nostra specie». Curioso notare, a questo proposito, che associare il linguaggio della parassitologia a gruppi sociali rivali è stato un tratto storicamente ricorrente in ogni gruppo radicale.
Le emozioni non costituiscono l'azione ma la predispongono
Nonostante i condizionamenti che si impongono agli attori sociali in virtù della coattività del contesto normativo in cui essi sono socializzati, si ritiene che la source delle azioni di un individuo sia da rintracciare nella dimensione psicologica ed emotiva insita nell'essere umano. In parole semplici, tanto in una storia d'amore, quanto nell'attività di un terrorista, di un criminale e di un assassino, agisce una interiorità emotiva capace di condizionarne i comportamenti.
È erroneo, dunque, sottovalutare il ruolo delle emozioni nel definire il cammino di ogni persona. Anche se è fuor di dubbio che le emozioni non costituiscono l'azione, esse hanno, tuttavia, la capacità di predisporla. Questo in virtù della cosiddetta "dimensione motivazionale" delle emozioni, e cioè del loro essere la cinghia di trasmissione in grado di trasferire i contenuti dello spirito alle azioni del corpo.
La radicalizzazione dell'Occidente nei confronti dell'Islam nasce, dunque, nelle innervazioni profonde della psiche collettiva di una certa parte di civiltà occidentale che, non trovando risposte alla necessità di soddisfare bisogni spirituali personali, trova nel "diverso" - musulmani e immigrati in primis - una facile e congeniale valvola di sfogo. Le prime mosse anti-immigrazione della Presidenza Trump costituiscono una estrinsecazione sinistra di tale radicalizzazione.
Tutto ciò produrrà, inevitabilmente, effetti negativi per ciò che concerne la lotta alla radicalizzazione jihadista vera e propria. Come sottolineano gli approcci più recenti nel campo del contrasto al terrorismo, una delle procedure-chiave per combattere la radicalizzazione violenta dell'Islam, consiste nel prevenire la dimensione cognitiva che guida l'intero processo. È imperativo categorico, dunque, che l'Occidente non risponda alla radicalizzazione con la radicalizzazione. Questo, oltre a essere oltraggioso nei confronti di una tradizione di difesa dei diritti tipicamente occidentale, ha pure effetti velleitari - se non addirittura peggiorativi - nella prevenzione della violenza. Nell'informare questo percorso, infine, gli intellettuali hanno una responsabilità imprescindibile.
Postilla
Noi per "radicale" intendiamo qualcosa di diverso: andare alla radice delle cose. Vedi su eddyburg Moderati e radicali secondo Bevilacqua