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Marco Revelli
Come far vivere un’agenda di riscatto
4 Aprile 2015
Sinistra
L'iniziativa di Landini e la furia crescente di Rodotà. Il dibattito sul che fare prosegue. «L’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata».
L'iniziativa di Landini e la furia crescente di Rodotà. Il dibattito sul che fare prosegue. «L’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata».

Il manifesto, 4 aprile 2015

«Oggi la metà dei cittadini non va nemmeno più a votare», perché non si sente rappresentata da nessun partito. E «più della metà dei lavoratori non è rappresentata da nessun sindacato». Credo che quando si discute di «coalizione sociale», come si è fatto in questi giorni sul manifesto, si debba partire da queste due frasi del discorso di Maurizio Landini, a conclusione della bella manifestazione della Fiom a Roma, che ci richiamano, tutti, alla drammatica crisi di rappresentanza che caratterizza la nostra ormai conclamata «post-democrazia».

E leggerle in sincronia con la vera e propria lezione pubblica di Stefano Rodotà, rivolta ai cinquantamila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso) che c’è l’ assoluta necessità di una coalizione orizzontale, di una «coalizione sociale», appunto, che non solo articoli la domanda dei soggetti sociali nei confronti della politica, ma ne strutturi l’agenda (mi pare che abbia detto proprio così: l’«agenda»). Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi.

Crisi della Rappresentanza, appunto, sociale e politica insieme. Forse sbaglio, ma stento a vedere nell’azione di Landini un chiaro progetto, sociale o politico, né tantomeno personale (come vorrebbe il brusio pettegolo su «scalate alla Cgil» o «discese in politica»). E mi pare invece d’intuire un’umanissima, fondatissima angoscia di chi sa di stare dentro una struttura a rischio di estinzione. Una «macchina» (non solo la Fiom, ma il Sindacato nel suo complesso) che fu straordinaria per potenza e creatività, ma che andrà irrimediabilmente a sbattere o a esaurirsi (in buona parte lo è già) se non saprà cambiare radicalmente se stessa allargando il proprio campo sociale. Così come mi sembra di vedere nella furia (crescente) di Rodotà nei confronti dei partiti (in cui peraltro ha militato a lungo, in posizioni apicali), compresi quelli piccoli, e a lui vicini, più una disperazione per il vuoto che lasciano che il rancoroso disprezzo per quel che sono.
Se questo è vero, allora, quello che sia Landini che Rodotà ci indicano è un punto di partenza, non certo di arrivo. Perché se è evidente che un processo di aggregazione orizzontale, al livello dei frammentati soggetti sociali, è indispensabile per ricomporre una qualche capacità di articolare una «voce» capace di farsi sentire e di produrre un’«agenda» alternativa, rimane, grande come una casa il problema di chi - o che cosa - quell’agenda la agisca. In qualche modo il problema intorno a cui si sono arrovellati, e sono finiti in secca, tutti i movimenti di protesta emersi dagli anni Sessanta in poi, e che ora ha finito per risucchiare nel suo gorgo anche il vecchio «movimento operaio», costretto, come quelli, a ricercare, brancolando nel buio, la propria via verso una capacità d’impatto sui meccanismi fondamentali della decisione politica, in chiave non solo difensiva (o oppositiva) ma anche «offensiva». In grado cioè di imporre decisioni radicalmente diverse da quelle amministrate al livello di Governo.
Problema drammatico, perché, come ci dice la Grecia, quelle politiche sono oggi mortali per la Società (distruggono, letteralmente, il Sociale). E se non vengono rovesciate anche nelle sedi stesse in cui nascono e sono «decise», non c’è scampo per chi, in basso, è costretto a subirle. È l’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Che non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma tema ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata. Ed ha tre volte ragione Paolo Favilli a ricordarci che quel rapporto ha una sua storia: esempi concreti di multiformi soluzioni che non possiamo noi, oggi, ignorare.
Almeno tre «modelli», tutti giocati nel passaggio - così simile al nostro per radicalità dei processi di trasformazione - tra Ottocento e Novecento. Il modello cosiddetto tedesco, incentrato sul primato del Partito (e della lotta politica) sul Sindacato (e l’azione rivendicativa) teorizzato da Kautsky e dalla Seconda internazionale: schema prevalso anche in Italia nel corso dell’età giolittiana e stabilizzatosi in chiave riformista nel secondo dopoguerra. Il modello inglese, quello delle Unions (!), in cui il partito - il Labour, appunto - è, almeno all’origine, diretta espressione del sindacato: sua «protesi» all’interno delle istituzioni, «associazione di associazioni» di cui le organizzazioni dei lavoratori, con struttura prevalentemente orizzontale, sono i «committenti». Infine il modello francese, quello che è stato definito «sindacalismo di azione diretta», in cui il Sindacato non solo delega ma assorbe in sé gli stessi compiti del Partito rifiutando la separazione tra lotta economica e lotta politica e costituendosi in una sorta di «Partito sociale»: modello a sua volta oscillante tra l’impostazione soreliana culminante nel mito dello sciopero generale insurrezionale e quella proudhoniana, articolata con forme di cooperativismo e di mutualismo come espressione di autogoverno dei produttori.
È ipotizzabile che, saltato definitivamente il primo modello (non c’è più un «partito di riferimento» per nessuno), torni in gioco qualcuno degli altri due? Che si possa immaginare una «coalizione sociale» committente nei confronti di un «soggetto politico» delegato a ripristinarne una rappresentanza? E con quale forma organizzativa, che non sia più quella del tradizionale partito di massa? Oppure che si riapra la strada a ipotesi di «sindacalismo di azione diretta», che però dovrebbe rivoluzionare alle radici il proprio modello organizzativo, farsi integralmente territoriale com’era il sindacato delle Camere del Lavoro e non quello delle Federazioni d’industria? Oppure - e le ipotesi possono moltiplicarsi - non sarebbe meglio continuare a «cercare ancora»? Tutti insieme. Ponendoci seriamente il problema - irrisolto - di dove, e come, possa coagularsi oggi, in Italia, quella «massa critica» in grado di tradurre nei luoghi del Governo la forza di un sociale riscattato dalla propria impotenza, prima di correre a mettere, ognuno, i propri cappelli.
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