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Marco Bucciantini
«Colpiamo la rendita, premiamo chi investe»
22 Maggio 2006
Articoli del 2005
Le brillanti analisi degli economisti e i commenti dei politici domenticano molto spesso che una delle cause del declino economico dell’Italia industriale sta nel fatto che gli investimenti vanno più alla rendita (anche immobiliare) che al profitto. Lo ricorda la Camera del lavoro di Firenze. Da l’Unità, edizione di Firenze, 6 marzo 2005

FIRENZE Le ultime notizie dal mondo dell’economia si somigliano. Le aziende chiudono, gli operai sono licenziati, la cassintegrazione è un miraggio, le famiglie s’indebitano. Gli affitti delle case, invece, sprizzano di salute. Mettere insieme queste notizie è meno ardito di quanto sembra. Lo fa Alessio Gramolati, segretario della Camera del Lavoro di Firenze. «La cattiva cultura d’impresa ha scelto la rendita. Il rischio d’impresa non esiste più: è tutto a carico del lavoratore e del suo posto di lavoro. I soldi prendono la scorciatoia: si compra il mattone, si praticano affitti scandalosi, 800-1.000 euro al mese per un bilocale. E il lavoratore, con il suo reddito fisso e basso, è penalizzato due volte: perché non può pagare l’affitto e perché il suo datore di lavoro non investe nell’innovazione, nel prodotto, ma cerca la rendita, mettendo a repentaglio il suo posto di lavoro». Il leader della Cgil fiorentina analizza fenomeni e cause della crisi, e prova a cercare vie di uscita: «Servono risposte nuove. Questa è una crisi inedita, i vecchi strumenti non bastano più»

Gramolati, la Ciatti è chiusa. È andata in Romania. Questo non sembra così inedito, ricorda un malcostume in uso e in abuso.

«La vicenda della storica azienda produttrice di mobiletti per televisioni è spiacevole. Ma il ragionamento è più complesso e la delocalizzazione può addirittura essere un sintomo che ci porta fuori strada».

E da dove si parte?

«C’è una crisi economica grande, internazionale, lunga e datata che non salva nessuno. La guerra fa aumentare il costo del petrolio e noi non possiamo farne a meno. Il dollaro si svaluta e costringe l’Europa alla minore competitività: cose sapute. Ma va sommato allo scenario il “caso Italia”: siamo ultimi per crescita nell’Unione europea. Nell’esportazione dei prodotti tecnologici siamo alla metà dei livelli di paesi come Olanda e Belgio. Negli “affari” interni, questo governo ha creato sfiducia e paralisi negli investimenti. Addirittura blocca opere importanti: qui a Firenze, il passante fra la città e Castello per l’Alta Velocità è fermo da diciotto mesi e il Polo tecnologico dell’Osmannoro non si traduce in realtà. Questo pesa sull’economia fiorentina, sulle imprese edili della zona. E se si tagliano i soldi ai comuni, vanno in crisi le municipalizzate e le partecipate, creando situazioni di lavoro precario. Molti dei problemi fiorentini e toscani nascono da questo quadro e le azioni - condivise - contro il governo non saranno mai abbastanza. Ma c’è dell’altro».

Dove sono i tratti nuovi, peculiari?

«Nella perduranza di questo stato di crisi, nell’incapacità di fissarne una fine (quanto durerà la guerra?). Nelle cose che si aggiungono anche da qua: la rarefazione degli investimenti, la conseguente caduta produttiva che accorcia il perimetro vitale di queste aziende, la scelta della rendita, l’abbandono del rischio d’impresa. Problemi nuovi, anche “naturali” per un tessuto d’imprese che conta mediamente 4 addetti. Poi al “netto” vediamo la delocalizzazione che vaporizza i posti di lavoro, ma il vero problema è la mancanza degli investimenti che vincola le aziende ai capitali esteri».

Quindi i soldi ci sono?

«Non è questo il punto, semmai è capire dove finiscono e impedire questo circolo vizioso, perché non possono essere sprecati: se si perdono nei lacci delle rendite, l’economia si impoverisce. Bisogna prosciugare i vantaggi di queste rendite perché sono soldi che vanno messi nello sviluppo. È questo il ruolo che spetta agli imprenditori e alle Istituzioni. Negli ultimi quattro anni il valore delle aree residenziali fiorentine è cresciuto del 400%, e in qualche zona perfino di più: ecco dove sono finiti i soldi».

E dove non sono finiti?

«Nella ricerca. La Toscana investe nella ricerca e nell’innovazione solo con il pubblico, che ci mette il 70%, mentre Lombardia ma anche Emilia Romagna hanno maggiori investimenti privati che pubblici (il pubblico in Lombardia si ferma al 25%, in Emilia Romagna al 40%)».

Sommano questi difetti, qual è il quadro definitivo?

«Lo scorso anno, solo nel settore tessile, lo stato di crisi attanagliò 200 imprese (e solo una ditta delocalizzò la produzione). Nei primi due mesi del 2005, nella provincia di Firenze già 66 aziende parlano con noi di crisi. Occupano circa duemila addetti: la metà rischia il posto di lavoro».

Sono numeri da incubo...

«Negli anni novanta i numeri erano ancor più giganti, erano in crisi fabbriche storiche, manifatture con centinaia di lavoratori come il Nuovo Pignone, la Gucci, la Galileo. Ne siamo usciti, perché allora le aziende avevano nella ristrutturazione e nella riorganizzazione un’ambizione vera. Cercavano di salvare la produzione, il lavoro, con strumenti di contrattazione e con idee industriali. Ai sindacati quegli accordi costarono un prezzo altissimo ma se ne videro i frutti. Oggi la ristrutturazione ha un altro obiettivo: la riduzione dei costi. Punto e basta. E quello del personale è il costo meno gradito. Con quelle 66 aziende in crisi nel 2005 solo in 10 casi riusciamo a parlare di cassintegrazione. Non si cerca una soluzione, non si attraversa la crisi con coraggio. Si scappa. Verso la rendita, altro che in Romania. Semmai è la delocalizzazione indiretta a incidere di più sul sistema toscano: le aziende leader - posizionate fuori dall’Italia - che abbandonano le “subforniture” delle fabbriche toscane per opportunità di costo e di mercato. Ma credetemi, la delocalizzazione è la crosta (evidente, ingiusta), ma sotto c’è altro. C’è di peggio: l’impoverimento del tessuto della regione. Si disperde il “sapere” della Toscana. Invece dobbiamo ritrovare un’identità, ricreare un mercato interno che assecondi uno sviluppo sostenibile e che parta dalla centralità dei posti di lavoro».

Cosa chiede alla politica?

«Di sostenere chi scommette. Di punire chi nasconde i soldi, chi abdica al rischio d’impresa. La “polverizzazione” - caratteristica toscana - ci propone aziende deboli, piccole, che non si mettono insieme, nonostante gli inviti a farlo. Serve uno scatto del sistema e sono risposte che deve dare la politica. Una forte reazione che può avvenire solo se si riesce prima a fare la diagnosi giusta, a cogliere la novità della crisi».

Insiste molto su questo inedito. Teme di parlare ai sordi?

«Credo che ci sia troppa fiducia nel determinismo storico: la Toscana ce l’ha sempre fatta, ha sempre vinto sulle crisi, e così sarà anche questa volta. Ma non si può attendere, perché i mezzi che hanno salvato il sistema in passato non sono più efficaci».

Che si può fare?

«Scegliamo l’innovazione. Ci sono intorno nuove imprese di chimica, di raffinazione della plastica, di trattamento dei generi alimentari. Nel tessile ci sono aziende che affiancano la produzione con la filiera del lusso. La politica deve creare le opportunità per chi decide di avere coraggio, deve sostenere le buone imprese che non fuggono nella rendita. E bisogna combinare azioni meno indulgenti con questi altri che la scelgono»

Si può pensare che la crociata agli affitti d’oro sia condivisa. Ma come si pratica?

«C’è un blocco d’interessi attorno a questa bolla speculativa: va colpito. Con gli affitti sociali. Ci sono già? Se ne fanno cento volte di più: rispondono ad un problema vero della città. Chi lavora per mille euro al mese non può pagare affitti di 800 euro per 60 metri quadrati. E magari scelgono il mercato nero degli affitti: altra piaga della città. Quindi colpire la rendita è giusto due volte. Il sindaco ha rilanciato una grande iniziativa che veda fianco a fianco governo ed enti locali per cercare di stanare questa pratica. Il buon esempio deve venire dall’alto».

Il recente accordo fra le categorie economiche fiorentine, cui fu dato risalto e importanza, sta realmente dando i suoi frutti?

«Va tradotto. Domani c’incontriamo con il comune di Firenze, ci siamo già visti con l’Università, e dal rettore sono arrivate ricette nuove e coraggiose. Marinelli apre ai privati per la ricerca, s’inventa modelli nuovi. È un esempio da seguire. Alternative non ce ne sono, aspettare la fine della crisi sarebbe un’eutanasia. Gli ammortizzatori sociali non sono sufficienti ma il governo non ci sente, è un muro. Questo non deve essere un alibi: noi dobbiamo fare la nostra parte. Approfittiamo dell’accordo, affrontiamo questa emergenza: bisogna governare il reinserimento delle persone espulse dal mondo del lavoro. Servono risposte nuove. Oggi il carico della crisi, il costo sociale, è scaricato tutto sul lavoratore che perde il suo posto. Va ridistribuito questo costo con le imprese. Costruiamo un modello nuovo per assorbire queste situazioni. È il primo passo per realizzare il patto, perché è un accordo vero, radicato nella parte del ceto produttivo che ha voglia di competere sui mercati».

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