Gherardo Colombo lascia la magistratura. Uno dei pm della scoperta della loggia P2 e di Mani pulite, ora giudice in Cassazione, dice addio alla toga a 60 anni. E spiega al Corriere: «In Italia quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su furbizia e privilegio.
Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è arrivati a una riabilitazione complessiva dei corrotti». E per il futuro? «Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia». «Mi sono convinto che, affinché la giurisdizione funzioni, è necessario esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole». E invece in Italia «quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su due categorie: furbizia e privilegio. A questo punto del mio percorso di vita, quello che voglio fare è invitare in particolare i giovani a riflettere sul senso della giustizia. E' una scelta del tutto personale, oggi mi sento più adatto a questo impegno che a quello di giudice».
Dentro il giudice Corrado Carnevale, fuori il giudice Gherardo Colombo. Depurato da coincidenze temporali e rispettivi profili professionali, in termini puramente numerici è uno scambio alla pari: uno (il giudice assolto dall'accusa di mafia, il collega del "Falcone è un cretino") è riammesso dal Csm in magistratura (dove da presidente di sezione di Cassazione resterà sino a 83 anni); l'altro (con Turone il giudice della scoperta della loggia P2 e del delitto Ambrosoli, con Di Pietro il pm di Mani pulite, con Boccassini il pm dei processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme ai giudici corrotti da Previti), dà le dimissioni da magistrato ad appena 60 anni, 15 prima della pensione. Con una lettera presentata, in sordina, al Csm e al Ministero della Giustizia a metà febbraio, nei giorni delle stanche rievocazioni del 15esimo anniversario dell'inizio di Mani pulite.
Non è una resa, dice, non c'è sfiducia nel lavoro di 33 anni in toga, né tantomeno ci sono porte da sbattere o superbe prese di distanza da coloro che invece restano con la toga addosso, convinti che far bene il proprio lavoro quotidiano contribuisca a migliorare da dentro il sistema: «Ci mancherebbe altro, anche l'amministrazione della giustizia è indispensabile». Anche, dice però Colombo. Prima, un «prima che magari non è cronologico ma sicuramente concettuale», spiega di essersi reso conto che, per crederci ancora, ha bisogno di sentire esistere un prerequisito: «La giustizia non può funzionare senza che esista prima una condivisione del fatto che debba funzionare».
La scelta di dedicarsi a questo obiettivo nasce da «un rammarico: il verificare come la giustizia sia l'unica sede nella quale si pensa che debbano essere accertate le responsabilità. Oggi, chiunque dica al mattino una cosa e la sera il contrario, è irresponsabile di entrambe le dichiarazioni. Ma lo strumento del processo penale è inadeguato a riaffermare la legalità quando l'illegalità sia particolarmente diffusa e non esistano interventi che in altri campi vadano nella stessa direzione. Diventa una spirale, crea sfiducia e disillusione».
«E' incredibile vedere quanto le persone siano coinvolte da questi contatti, da fuori è davvero inimmaginabile», si infervora Colombo raccontando di incontri «programmati per due ore e dove invece devo fermarmi per tre»; di centinaia di persone che magari vengono in un teatro o in una biblioteca all'antivigilia di Natale e quindi non certo perché non sanno cosa fare»; di «ragazzi che succede spessissimo restino con la bocca aperta» a sentire eventi della vita del loro Paese fondamentali, ma che nessuno mai gli aveva raccontato. «Bisogna dar loro due cose: metodi e informazioni», ritiene Colombo, che, sostenuto anche dall'esperienza di tanti incontri in tema di corruzione, tecniche investigative, assistenza giudiziaria internazionale, ai quali è chiamato particolarmente all'estero, si propone ora di impegnarsi in questa direzione «sia attraverso contatti diretti, sia scrivendo che occupandomi di editoria: va comunicato il profondo perché delle regole e il come farle funzionare; occorre colmare la carenza di informazione non solo sui fatti, ma anche sulla concatenazione dei fatti e del pensiero; è necessario individuare le premesse e rendere evidenti le loro conseguenze, sottolineando la necessità di coerenza, in modo da dare risposte stimolanti alla tanta voglia di approfondire questi temi».
E si intuisce che, rapportata a sé, è proprio questa esigenza di "coerenza" a spingere ora Colombo a lasciare l'amministrazione della giustizia.
Non ci crede più, non crede che si possa aumentare il tasso di legalità attraverso l'uso dello strumento giudiziario, quando nulla cambia all' esterno.
Da fuori forse sì, gli sembra possibile: «A questo punto della vita mi sono convinto che può esistere giustizia funzionante soltanto se esiste un pensiero collettivo che in primo luogo individui il senso della giustizia nel rispetto degli altri; che poi ci rifletta; e che infine, se ne viene convinto, arrivi a condividerlo. Si tratta di confrontarsi con i fondamenti della nostra Costituzione, il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge». Mentre l'amministrazione reale della giustizia, quella che oggi a suo avviso arranca «senza una cultura condivisa delle regole, diventa qualcosa di estremamente difficoltoso, addirittura per certi versi eventuale, fonte essa stessa di giustizia casuale e quindi paradossalmente di ingiustizia», nel marasma di «una grande disorganizzazione e con scarsi mezzi».
Da questo punto di vista, per paradosso, «l'esperienza in Cassazione è stata per certi versi inaspettatamente confermativa: un impressionante numero di cause da trattare in poco tempo, scarsi mezzi, mancanza di stanze».
Il tutto accompagnato da una sensazione di «ineluttabilità» alla quale «si rassegna» chi pure lamenta «le cose che non funzionano», ultima goccia del cocktail che ora a Colombo fa dire: «Dare così poca cura a un'attività cruciale per l'amministrazione della giustizia è stata, per me, la definitiva conferma che c'è anche altro da fare».
Altro rispetto ai processi. E prima dei processi: la condivisione delle regole. E qui sembra affiorare l'eco di una sconfitta, l'unica forse avvertita come davvero bruciante dall'ex pm di Mani pulite: corrotti e corruttori rientrati nella vita pubblica, o direttamente (votati) o indirettamente (nominati), comunque legittimati dai cittadini.
Colombo si sente "tradito" dal "popolo" nel cui nome ha amministrato giustizia? «Piuttosto, sono contrariato nel vedere come la legalità, per questo Paese, sia ancora qualcosa che ha poche chances». Tra le concause, dice, « ha pesato il mutato atteggiamento dei media, le falsità dette contro le nostre indagini e talora contro di noi. Ma credo ci sia stato anche un altro elemento importante. All'inizio le indagini hanno coinvolto i livelli più alti della politica e dell'imprenditoria, perché nei loro confronti erano allora emersi gli indizi: persone lontane anni luce dal cittadino comune. Poi, però, man mano che le indagini progredivano, sono comparsi anche fatti attribuibili a persone comuni: al maresciallo della Finanza, al vigile dell'Annonaria, al primario dell'ospedale, all'ispettore dell'Inps, al medico e ai genitori dei figli alla visita di leva, alla cooperativa di pulizie. E qui, ecco che l'atteggiamento della cittadinanza è cambiato».
E voi magistrati siete finiti fuori mercato perché offrite un prodotto (la legalità) per il quale non c'è domanda? «Anche qui la misura della legalità è il rispetto dei principi costituzionali. Di legalità non c'è n'è abbastanza. Sono molti, per fortuna, coloro ai quali interessa la legalità, che vuol dire piena attuazione dei principi costituzionali della tutela dei diritti fondamentali e dell'uguaglianza di fronte alla legge. Ma non sono ancora abbastanza. E soprattutto, hanno una scarsissima rappresentanza, non trovano voce sufficiente. In alcuno dei due schieramenti». Colombo lo ricava «dal fatto che, altrimenti, sulla legalità sarebbero state fatte delle battaglie. E dico sulla legalità, non sul fatto che il signor Tizio o il dottor Caio siano colpevoli o innocenti: ad esempio sulla modifica delle regole del processo, per renderlo più agile e rapido; sulla dotazione di strumenti che consentano ai giudici di svolgere meglio la propria funzione; sulla cura della preparazione professionale».
E' questo il fronte che ora sembra prioritario a Colombo. Il quale, a sorpresa, non ha tanta voglia di voltarsi per toccare con mano l'esito delle sue inchieste: «Vogliamo essere spietati? Sono magistrato dal 1974, per 3 anni giudice, poi da inquirente mi è capitato di occuparmi della loggia P2, dei fondi neri dell'Iri, di Tangentopoli, della corruzione di qualche magistrato. Alla fine — a parte la dovuta definizione giudiziaria delle singole posizioni —, i risultati complessivi di questo lavoro quali sono stati? Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è sostanzialmente arrivati a una riabilitazione complessiva di tutti coloro che avevano commesso quei reati. Con un livello di corruzione percepita che non si è modificato. E, soprattutto, con una rinnovata diffusione del senso di impunità prima imperante». Cambiare dall'interno, no? «Dovrebbe davvero cambiare tutto». E invece, «possibile che per selezionare i capi di uffici giudiziari di dimensioni pari a una grande azienda, continuiamo a fare le scelte, quando va bene, sulla base della capacità di condurre indagini o scrivere belle sentenze, qualità che nulla hanno comunque a che fare con la capacità di organizzare un ufficio? Anche a proposito delle questioni disciplinari, siamo sicuri che, nonostante tutti gli sforzi, pur fatti, non si potesse fare ancora di più per evitare che qualche magistrato fosse avvertito come arrogante o non sufficientemente dedicato alla sua funzione?».
Per Colombo «l'Italia è un paese di corporazioni che per prima cosa si difendono autotutelandosi (ha presente l'espressione "cane non mangia cane"?)». E pur se «la magistratura mi sembra, tutto sommato, la migliore» di queste corporazioni, «anche al suo interno si avverte la tentazione di cedere alla stessa logica: la difesa della categoria, prima che dell'organizzazione, della disciplina, della laboriosità; con il rischio di isolamento per chi pensa il contrario».
La decisione di guardare alle regole da una posizione diversa — confessa Colombo, ieri in Procura a salutare alcuni colleghi — «non è stata facile e continua ad essere molto sofferta. Non soltanto perché questo lavoro ha assorbito buona parte della mia vita, ha accompagnato la nascita dei miei figli, la morte dei miei genitori, è stato intriso di eventi di dolore squarciante (come gli assassinii, proprio qui a Milano, di Guido Galli e Emilio Alessandrini, e dei colleghi eliminati da terrorismo e mafia); ma anche perché tanti sono i colleghi, dai quali mi separo, che con cura, attenzione e direi ostinazione non hanno fatto altro che cercare di rendere giustizia. Ma a mio parere, perché non sia un compito immane, occorre anche altro: che l'atteggiamento verso le regole cambi anche fuori dai palazzi di giustizia».
Luigi Ferrarella