Perché mai i popoli del Sud del Mondo, che sacrosantamente accusano i paesi occidentali di averli invasi schiavizzati deportati sfruttati, brutalmente e sistematicamente umiliati e offesi, oggi si impegnano a riprodurne fedelmente il modello economico e culturale? Perché, tornando a distanza di pochi anni in città e paesi asiatici, africani, sudamericani (che ricordavamo come seducenti prodotti di storie e civiltà a noi sconosciute, documenti carichi di senso, testimonianze non solo di valori perduti ma di possibili diverse ipotesi future) ci si ritrova puntualmente di fronte a tante, piccole o grosse, ma quasi sempre brutte, Manhattan, fatte di palazzoni e grattacieli copiati dai nostri, di negozi carichi degli stessi prodotti in vendita da noi, di gente vestita esattamente come noi, di pizzerie e Mac Donald’s, di Tv e pubblicità imperanti, di auto per lo più di marche occidentali e puntualmente, come da noi, immobili o quasi in strade congestionate e irrespirabili? Perché, questi popoli, riflettendo sulla loro storia e più ancora sul loro presente, non provano a immaginare un mondo diverso, magari da proporre anche a noi?
A questa domanda, cui più volte ho accennato in articoli e pubblici dibattiti (ricordo in particolare un incontro di un paio d’anni fa a Modena, in cui inutilmente la proposi a Wandana Shiva) non avevo avuto finora risposte significative. La conferenza di Cochabamba, per la prima volta, non solo mostra consapevolezza del problema, ma su di essa fonda la novità del suo discorso; e traccia le ipotesi di una strategia forse capace non solo di affrontare alla radice la crisi ecologica, ma di rapportarla alla realtà sociale, in una lettura complessiva delle iniquità e storture del mondo.
In effetti, benché ufficialmente dedicato al “cambiamento climatico”, da posizioni di forte critica dell’insuccesso di Copenhagen, fin dall’inizio il meeting sudamericano ha impresso al discorso un respiro ben più vasto, in cui il clima si pone non come “il problema”, ma solo come uno - certo importantissimo - dei tanti problemi che si sommano nella crisi planetaria, non soltanto ecologica . E ciò in modo inequivocabile è apparso fin dai primi documenti ufficiali proposti dalle varie delegazioni. “La Terra è malata”, “Questo sviluppo è insostenibile”, “Cambia il sistema non il clima”, “Giustizia sociale e ambientale”, “Contro il capitalismo”: tali sono gli slogan in essi ricorrenti, che si esplicitano poi in abbozzi di sintesi quali “La Terra è malata a causa del modello economico sostenuto dal capitalismo”. Un discorso in cui la conferenza ha non solo ritrovato una critica totale del capitalismo, quale da gran tempo mancava anche dalle posizioni delle sinistre più avanzate, ma ha tracciato l’abbozzo di un’analisi complessiva, che ha soprattutto il pregio di mettere a fuoco una attendibile scala sia di priorità che di interdipendenze nella fenomenologia della realtà ecologica e sociopolitica.
Muovendo dall’inquinamento causato dalle produzioni industriali più diverse, da loro stessi direttamente vissuto e sofferto, questi popoli accusano la molteplicità pressoché sterminata di attività squilibranti dell’ordine naturale. Ad esempio, agricoltura industriale, cioè raccolti largamente soddisfacenti, certo, ma ottenuti mediante deforestazione intensiva e forti dosi di concimi chimici; cioè rottura di antichissimi equilibri vegetali e biologici; cioè anche milioni di disoccupati, costretti ad emigrare e alimentare la crescita di mostruose megalopoli; cioè ancora tossicità che entra nella catena alimentare, raggiunge ortaggi, frutta e perfino latte materno, cui segue il moltiplicarsi di malformazioni e affezioni tumorali. E alla medesima logica innaturale obbedisce poi lo stesso rimboschimento “riparatore”, con piante tutte uguali che negano la necessaria equilibratrice biodiversità.
Oppure. Trivellazioni in cerca di petrolio, gasolio, metano, minerali preziosi, interventi devastanti su estensioni vastissime, inquinamento di terre e mari, sconvolgimenti irrecuperabili di ecosistemi e antichi insostituibili paesaggi. E allevamenti industriali di polli maiali ovini abbacchi pesci ecc., sottoposti a sviluppo artificiale a base di ormoni o altre sostanze chimiche: complessi spesso giganteschi, che alterano l’intero ecosistema e le tradizionali proporzioni paesistiche. E fabbriche di sempre più sofisticati beni “immateriali”, basati sulle conquiste scientifiche più avanzate, di cui tutti andiamo orgogliosi, che creano però rifiuti per la loro nocività definiti “speciali”, ma solo raramente avviati a speciali trattamenti.
Tutto ciò e molto altro rappresentanze di gran parte dell’America Latina hanno detto a Cochabamba. Denunciando le ferite di popoli offesi da un’economia estranea che li invade e prevale mediante lo strapotere delle multinazionali, delle grandi banche, degli stessi governi locali sovente ad esse ambiguamente corrivi, e a tutti impone l’ideologia del consumo e della crescita fine a se stessi; accusando i mercati di farsi misura di ogni confronto, e perfino “privatizzare l’atmosfera attraverso la compravendita di emissioni”; lanciando slogan significativamente propedeutici alla battaglia programmata, come “Recuperare e fortificare la propria identità”.
Tutte le rappresentanze presenti a Cochabamba si sono date appuntamento per fine anno alla Conferenza di Cancun, impegnandosi a portare avanti gli stessi temi. Chissà mai che possa essere il Sud del mondo a salvare il mondo intero?
Questo articolo esce contemporaneamente su Liberazione , oggi 29 aprile 2010