Recensione all'ultimo lavoro di Bernardo Secchi, La Città dei Ricchi e la Città dei Poveri (Laterza), dove si denuncia tra l'altro la «diretta responsabilità degli urbanisti nell'aggravarsi delle disuguaglianze». Corriere della Sera, 3 agosto 2013
Sul tema del mutamento futuro della città (o forse dell'idea stessa di città) si sono concentrate non solo le attenzioni tradizionali di architetti e urbanisti, ma soprattutto di economisti, sociologi, teorici della creatività e persino talvolta di politici professionali. Per ora gli «architetti delle città» rappresentano poco più del cinquanta per cento degli abitanti del globo e si prevede che essi saliranno al sessanta per cento attorno al 2025.
Ovviamente di città, o meglio di insediamenti urbani, ve ne sono di diversissimi tipi: dai villaggi alle postmetropoli, che hanno dato nuovo significato alle antiche metropoli, sembrano, crisi o non crisi, destinate ad aumentare in numero e in estensione sia insediativo che di popolazione. Ma soprattutto secondo alcune previsioni di queste «città mondiali» di comando, come le aveva definite molti anni or sono Saskia Sassen, sedi privilegiate e interconnesse della urban élite, esse sembrano destinate a decidere i destini del globo in modo sempre più indipendente da luoghi, culture e organizzazioni nazionali.
L'Europa, nonostante la presenza importante di Londra e Parigi, le uniche che superano i dodici milioni di abitanti, di queste postmetropoli non ne ha nessuna, a meno di considerare confini urbani i suoi sistemi insediativi regionali interconnessi, che nascono dalla specialissima fittezza della rete insediativa europea. Alcuni propongono la distinzione dei due significati della parola confine in quanto limite o in quanto bordo, o si dichiarano per una città aperta. Ma anche qui certamente aperta sociologicamente all'altro, al diverso, allo scambio, contro ogni gated community, ricca o poverissima, ma come ci si regola nell'estensione territoriale con le difficoltà dei trasporti, la moltiplicazione dei servizi, i costi delle infrastrutture, la presenza dei servizi rari e le superfici aperte (agricoltura o parchi) inglobate tra il costruito?
Ovviamente il giudizio sulle postmetropoli (da Città del Messico a Mumbai, da Shanghai a Seul, e persino all'invenzione di qualcun'altra del tutto nuova che viene talvolta temerariamente proposta) è estremamente differenziato e in radicale opposizione alle tesi ambientaliste e di nuovo equilibrio con una produzione agricola diffusa. Quindi non una città territorio senza confini, ma capace di un dialogo per la costruzione di un paesaggio multicentrico interconnesso. Tutto questo anche se, nonostante gli aumenti previsti, le superfici occupate dagli insediamenti urbani non superano oggi il 2,5% della superficie del globo e, nonostante il loro incessante sviluppismo anche in termini di possibilità, sono, per ora, soprattutto la rappresentazione della disuguaglianza sociale assai più che dall'importanza organizzativa della vita collettiva.
Sono proprio le comunicazioni immateriali di massa e intersoggettive che propongono forme di autocolonizzazione globale a servizio dei mercati e volte ad eliminare le differenze tra le culture, culture che sono talvolta produttrici di scontri ma anche portatrici di fondamentali possibilità di confronti dialettici tra differenze e soprattutto di quelle che io definisco «le possibilità necessarie», dell'abitare civile futuro. A queste riflessioni, almeno nella sua interpretazione, è dedicato il nuovo libro di Bernardo Secchi dal significativo titolo La città dei ricchi e la città dei poveri (Laterza, pp. 90, 14), con cui egli richiama la diretta responsabilità degli urbanisti nell'aggravarsi delle disuguaglianze.
«La paura rompe la solidarietà, fa emergere sistemi di intolleranza e la speculazione separa la popolazione in funzione del reddito, che a sua volta costruirà le proprie gated community o promuoverà per i diversi di razza, di censo o di religione le favelas per poverissimi».
A tutto questo contribuisce — scrive Secchi — a partire dalla fine del diciottesimo secolo, anche l'idea della «casa di famiglia» come microcosmo da difendere, e una progressiva «politica di distinzione», un po' in tutto il mondo. Gli esempi che Secchi racconta sono molti e assai differenziati, dal Sud America ad Anversa, sino alla formazione e poi interpretazione (sociologica e progettuale) delle periferie o alle contraddizioni conflittuali delle «città diffuse», costruite a partire «dall'ideale utopico della casa singola».
Dopo aver rivisitato il contributo teorico sulla questione della «città delle disuguaglianze» di Foucault e di Barthes degli anni Settanta, Secchi accenna alla tradizione postbellica della politica urbanistica europea e ai suoi tentativi fondati sul «welfare state», terminando con una riflessione che cerca di domandarsi se al di là della crisi economica, esista una specifica crisi della città stessa, che si evidenzia anche nella riduzione della necessità di persone impegnate nella produzione a causa dei progressi tecnici della produzione stessa, e del conseguente indebolimento dell'idea di classe sociale che si è enormemente estesa come classe media, con un numero di ricchi forse minore ma enormemente differenziato. E, aggiungo io, senza alcuna cultura di classe, ma solo quella dei poteri costituiti dall'impero del capitalismo finanziario globale. Così il costo delle disuguaglianze è enormemente aumentato: costo in denaro, costo politico e incertezze nelle proposte ragionevoli della città futura.