Lei è la teorica della “città globale”. Come vede l’evoluzione delle città europee e italiane in particolare?
“Uno degli sviluppi più interessanti, in controtendenza con quanto comunemente ritenuto, è il ruolo sempre più importante delle piccole città europee in quanto luoghi nei quali vivere, fare affari e realizzare progetti culturali. Questa ascesa delle città europee rientra, credo, nella più generale tendenza a un mondo multipolare. C’è, in tutto il mondo, un crescente numero di città globali, sia grandi che meno. Uno spazio urbano adatto a ogni genere di iniziative, sulle prime di tipo commerciale e finanziario, ma ora anche di tipo culturale e politico. Le città degli Stati Uniti hanno perso terreno anche agli occhi degli investitori e delle imprese. Un tempo tra le prime quindici città del mondo, sotto il profilo degli investimenti e della presenza di imprese, quattro erano americane. Oggi ne sono rimaste due: New York e Chicago. Los Angeles è scivolata dal 10° al 17° posto e Boston dal 12° al 23°. Le città europee e asiatiche hanno scalato la classifica. Questi mutamenti contribuiscono a fornire un’ulteriore spiegazione dell’arretramento degli Stati Uniti in quanto potenza economica e militare dominante.
Non che gli Stati Uniti siano diventati all’improvviso più poveri, ma altre regioni del mondo sono in fase di sviluppo e ci sono molteplici forze che alimentano queste spinte di vario tipo: economico, politico e culturale. Se questo possa essere considerato un bene o un male per l’insieme del tessuto sociale di queste città e dei loro Paesi, è una questione complessa e oggetto di molti dibattiti. Ma il fatto che le imprese globali hanno bisogno di città e, più precisamente, di gruppi di città, dovrebbe consentire alla leadership politica, imprenditoriale e civile di questi centri urbani di negoziare con le imprese globali maggiori benefici per le loro città. È un processo che dovrebbe portare a conseguenze generalmente positive se le classi di governo saranno in grado di capire che queste funzioni economiche globali si svilupperanno meglio in un contesto caratterizzato dalla presenza di una forte e prospera classe media piuttosto che in una situazione di profonda disuguaglianza e di spaccatura come quella che esiste attualmente tra un crescente numero di famiglie. Le città globali europee hanno ottenuto risultati migliori delle città globali degli Stati Uniti esattamente per questa ragione”.
Le megalopoli mondiali non sono europee (se non, forse, Londra e Parigi): è una forma che non si addice al Vecchio Continente?
“Sostanzialmente direi di sì; non si addice alla lunga storia delle città e al fatto che su ogni territorio insiste una molteplicità di piccole città. L’Europa è un territorio profondamente multi-nodale. Proprio per questo l’espansione territoriale delle città più grandi assume spesso la forma dell’area metropolitana multi-nodale. Ad esempio, Francoforte, Zurigo e molte altre piccole città europee hanno di fatto distribuito le loro attività su tutta una serie di piccoli villaggi e cittadine situati nella zona circostante. Si tratta di un modello molto diverso dall’ininterrotta estensione della città nello spazio suburbano che caratterizza gli Stati Uniti e le principali città asiatiche e latino-americane”.
Che relazione c’è tra l’apertura delle frontiere europee e il modello della città-Stato?
“Credo si possa dire che stiamo assistendo alla storia nel suo divenire. Non bisogna dimenticare che circa dieci anni fa a Bruxelles si dibatteva con grande passione se bisognava costruire l’Europa delle Regioni o l’Europa delle Città. Si è preferita l’Europa delle Regioni: voleva dire che le regioni erano destinate a diventare le principali unità amministrative. Poi in realtà le città sono diventate più importanti. C’è quindi la sensazione che l’Europa sia uno spazio nel quale le città sono gli attori principali, a parte Bruxelles e i governi nazionali. Naturalmente è una situazione che varia enormemente da Paese a Paese, ma resta il fatto che le città sono gli attori principali. Il fenomeno a mio giudizio non si spinge sino al punto da creare una Europa delle città-Stato. Questo è il passato medievale dell’Europa, ma certamente il rafforzamento dell’Unione europea ha avuto come conseguenza il rafforzamento delle città. Eppure a dominare il quadro sono ancora gli Stati nazionali seguiti all’alto Medio Evo”.
La nostra storia viene dal governo dei Comuni e ci siamo evoluti in una sempre maggiore integrazione: c’è un ritorno ad un modello frammentatoe localista?
“Come ho già detto è in atto una tendenza di questo tipo. E riallacciandomi alla domanda precedente, considero questa tendenza parte di una più ampia e profonda riorganizzazione del territorio, dell’autorità, dei diritti. Di questo parla il mio libro dall’omonimo titolo (pubblicato in Italia da Bruno Mondadori 2008, ndr). L’Unione europea è un aspetto del riassemblaggio di questi tre elementi fondamentali. La crescente interazione tra le città in tutto il mondo, specialmente sul piano economico, ma anche su quello culturale e politico, è un aspetto meno formale del nuovo assemblaggio del territorio, dell’autorità e dei diritti”.
Un modello socialmente e politicamente efficiente è quello dello Stato federale come lo conosciamo oggi e che viene dal passato del Continente?
“Sì e no. Proviamo a pensare alle grandi infrastrutture di molti Paesi europei: i treni! Per ottenere un risultato del genere ci vuole un governo nazionale. Se l’autorità decisionale fosse esclusivamente in mano a giurisdizioni amministrative sub-nazionali nascerebbero problemi di ogni genere”.
Il decentramento può essere solo amministrativo-funzionale o anche decisionale: i luoghi del potere devono essere divisi nel territorio nazionale?
“Questa è, credo, un’autentica sfida. Ed è una sfida che ciascun Paese deve affrontare autonomamente sulla base dei rapporti specifici tra governo nazionale e autorità locali. La privatizzazione di molte delle funzioni di competenza un tempo dello Stato nazionale, è stata una forma di decentramento. Abbiamo bisogno di sistemi di distribuzione democratici e anche questa sarebbe una forma di decentramento che può coesistere con forti poteri centrali su alcune materie (nel bene e nel male… dipende dal caso specifico)”.
Fino a che dimensioni demografiche e geografiche uno Stato funziona e può essere preso a modello (i Paesi scandinavi o alcuni piccoli Stati mondiali efficienti)?
“Sì, i Paesi scandinavi sono ammirevoli sotto molti punti di vista e certamente le piccole dimensioni sono state un vantaggio. Ma da questo non possiamo trarre la conclusione che l’unico elemento che conta sono le dimensioni piccole. La dimensione geografica e demografica limitata non porta necessariamentead un sistema più equilibrato e più giusto. La maggior parte dei Paesi piccoli sparsi in tutto il mondo si trova in pessime condizioni. In entrambi i casi l’elemento critico è la qualità del quadro istituzionale e la determinazione con cui il governo persegueil bene di tutti i cittadini. Relativamente a questo secondo elemento la maggior parte dei Paesi, sia grandi che piccoli, hanno ottenuto risultati negativi anche quando le loro istituzioni funzionavano. Parlando poi di Paesi molto grandi possiamo fare, da un lato, l’esempio dell’India che ha un numero enorme di poveri ai quali manca anche l’essenziale e ciò a causa delle dimensioni. Ma c’è, d’altro canto, un Paese molto grande, la Cina, che, per esempio, sul piano dell’assistenza sanitaria per tutti ha ottenuto risultati migliori della maggior parte dei Paesi piccoli. La dimensione quindi non è il fattore decisivo. Contano la qualità dell’azione di governo e delle istituzioni, il livello di partecipazione dei cittadini e via dicendo”.
Quale pericolo vede nel moltiplicarsi delle istanze localiste? In Italia abbiamo la Lega Nord e nel nostro Paese la questione Nord-Sud è tutt’altro che risolta a quasi 150 dalla nascita della Repubblica.
“È una lama a doppio taglio. Alcune forme di localismo possono essere un vantaggio per il territorio e uno svantaggio per la comunità nazionale nel suo complesso. Altre forme di localismo non sono un vantaggio per nessuno, se non per alcuni esponenti politici in cerca di potere e alcuni potentati economici. L’Irlanda ha tratto vantaggio da una sorta di localismo messo in moto dall’Unione Europea: una specie di localismo complesso che torna a beneficio sia della dimensione locale che di quella transnazionale (in questo caso l’Ue). È uno dei modelli del futuro. Ciò dovrebbe portare all’indebolimento di alcuni poteri a livello nazionale che spesso diventano corrotti e finiscono per favorire i privilegiati e i potenti. Prendiamo ad esempio l’operazione di salvataggio delle banche e delle istituzioni finanziarie negli Stati Uniti. Per fronteggiare la crisi l’amministrazione Bush utilizzò migliaia di miliardi di dollari dei contribuenti per salvare le grosse istituzioni finanziarie e non tirò fuori nemmeno un dollaro per aiutare milioni di famiglie a basso reddito che stavano perdendo la casa. Ora Obama ha elaborato un modesto piano, ma non ha esercitato sufficiente pressione sulle banche affinché aiutino le famiglie”.
E una città in quali forme e dimensioni rende al meglio? Ovvero, quali sono i meccanismi produttivi, culturali e non solo economici delle città globali?
“È una cosa che varia enormemente da caso a caso. Ma al cuore di una città ci sono la diversità, l’integrazione tra diversi, la densità e – elemento questo assolutamente indispensabile – la sensazione diffusa che ‘questa è anche la mia città’”.
Come si integra nelle strutture sociali il concetto di individuo che ha sempre più peso nella società?
“A questa domanda non rispondo. È troppo legata a situazioni culturali che variano da Paese a Paese”.
Dove sorgeranno le città del prossimo futuro?
“Le città continuano a sorgere in tutto il mondo. Alcune sorgono praticamente dal nulla e questo accade in particolare nei Paesi asiatici ricchi e, all’altra estremità dello spettro, sotto forma di slum costruiti dalle stesse persone che li abitano. Altre città sono invece il prodotto dell’espansione di cittadine e villaggi. La maggior parte delle città del mondo sono piccole o di medie dimensioni”.
(Traduzione di Carlo Antonio Biscotto)
Nota: su temi complementari a quelli toccati da Saskia Sassen, si vedano i ragionamenti sul futuro anche politico degli Stati Uniti proposti dall’ex teorico del neo-suburbanesimo Joel Kotkin, che sull’ultimo numero di Newsweek discetta di neo-localismo. La traduzione in italiano su Mall (f.b.)