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Francesco Erbani
Città. Come cambia e come ci cambia la vita
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
In un'intervista a Guido Martinotti l'efficace descrizione degli effetti di uno svilippo distorto. Il sociologo dice: "quegli insediamenti sono favoriti dallo sviluppo tecnologico legato ai modi dell´abitare". Peccato che lo sviluppo tecnologico non sia guidato da un'idea giusta dell'abitare. Da la Repubblica del 22 ottobre 2004

Nel 2000 è avvenuta una svolta nella storia del pianeta. Una svolta al termine di un processo che potrebbe essere cominciato sessanta secoli fa. Ma anche centoventi. Gli esseri umani che vivono in città hanno superato quelli che vivono in campagna. Nessun festeggiamento, nessuna cerimonia. Ma è da qui che parte Guido Martinotti, sociologo urbano, professore all´Università di Milano-Bicocca, di cui è anche prorettore, nella sua riflessione sullo stato di salute della città, sulla sua forma e sulle sue trasformazioni, sulle città che si ingrandiscono e su quelle che si rimpiccioliscono, su come ci si vive e su come ci si muove o, soprattutto, su come ormai non ci si muove più. Tutto questo è al centro della terza edizione di «Mobility Venice», un forum internazionale che si è aperto ieri a Venezia (vedi il box in questa stessa pagina).

Martinotti constata l´avvento di una nuova forma di città, che procede contemporaneamente al successo della dimensione urbana nel confronto durato molti secoli con la campagna: è nata la "meta-city", la "città-oltre", una concentrazione territoriale che supera non solo l´antica città cui i millenni ci hanno abituato, ma anche la stessa, recentissima, area metropolitana. Un urbanista, Francesco Indovina, la chiama "città diffusa". È un agglomerato edilizio e di strade che giorno dopo giorno consuma ettari di suolo, porzioni irriproducibili di paesaggio. Non è abusivismo: stando al censimento, la superficie agricola totale che nel 1990 arrivava a 23 milioni di ettari, nel 2000 non superava i 19 milioni 700 mila ettari. Questa marmellata edilizia accorpa città un tempo distanti, si slabbra senza confini amministrativi, sembra una nebulosa, ma è pur sempre un oggetto concreto, visibile a occhio nudo, governato non si capisce da chi, certo non da organismi rappresentativi come il Comune o la Regione.

Professore, si può parlare ancora di città?

«È un termine insufficiente, perché non rende le modifiche degli ultimi cinquant´anni almeno, tutte orientate in un´unica direzione, l´enorme ampliamento dell´urbano».

Al sostantivo va necessariamente abbinato un aggettivo: città storica, metropolitana, densa, spontanea, diffusa, ecc.?

«Questi e altri ancora. I tentativi terminologici procedono incessanti: non-luogo, urban realms, edge city, metropolitan fringe?»

Eppure, stando ai dati statistici, le città perdono abitanti. Roma, Milano, Firenze, Napoli, Torino al censimento del 2001 contavano gli stessi residenti di venti, trenta, persino cinquant´anni prima. E lo stesso accade a Detroit o a Lipsia?

«È vero. Milano ha pochi più abitanti del 1936. Ma queste misurazioni si riferiscono alla città di notte, quella che dorme. Non a quella che di giorno si satura di persone e di auto. Una volta le due entità si sovrapponevano. Ora non più. Ed è per questo che in sociologia si è introdotta l´espressione city users».

Com´è una città che perde residenti?

«È una città che invecchia. Milano ha quasi il 29 per cento di ultrasessantenni, una quota in crescita continua. Detto questo, pur restando ai dati dei censimenti, la nostra resta un´epoca di urbanizzazione».

Quali dati?

«In Europa, in America e in Asia il 70 per cento delle persone vive in città. In Italia questa percentuale è di poco superiore alla metà. Ma già in Francia è superiore. Fino a trent´anni fa crescevano solo le città occidentali, ora si dilatano quelle cinesi o africane. E tenga conto che l´espulsione dalle campagne è agevolata dalle multinazionali dei semi geneticamente modificati, che impongono immense estensioni e pochissima manodopera».

Ed è in questa fase, lei dice, che avviene nel mondo il sorpasso delle città rispetto alle campagne.

«Sono stime delle Nazioni Unite. L´urbanizzazione è un cammino che procede dalla fondazione di Gerico in Palestina, le cui mura risalirebbero a diecimila anni prima di Cristo, di Ugarit in Siria o di Uruk, la città sumera con i suoi bastioni, un´organizzazione sociale e persino un hinterland».

Ma proprio nel momento in cui raggiunge l´apice del suo sviluppo, la città cambia completamente la sua forma. È così?

«La città è un organismo vivente. Per sessanta e più secoli ha fronteggiato in condizione di minorità il mondo rurale. Da due secoli la situazione è andata via via mutando, fino a ribaltarsi. Ma nel frattempo la forma della città è radicalmente mutata».

E si arriva così a quella che lei chiama "meta-city". Vogliamo vederla più da vicino?

«Volentieri, ma devo partire dagli anni Venti del Novecento, quando si affaccia, soprattutto sulla scena americana, una prima generazione di città moderna, la città fordista, largamente dominata dall´industria pesante e dall´incipiente diffusione dell´automobile privata».

Cui è seguito che cosa?

«È seguita una seconda generazione, dal dopoguerra fino a tutti gli anni Sessanta. La chiamerei the car-happy city».

La città dove si è felici di usare la macchina?

«Esattamente. Ne era simbolo una celebre canzone di Charles Trenet. Oppure il film Il sorpasso. È la città che si espande, la città della ricostruzione e dello sviluppo capitalistico, così in Occidente come in Asia. L´auto serve a muoversi dalla periferia verso il centro e la città è costruita sul concetto della mobilità, che è determinato anche dal valore dei suoli. Chi ha più soldi vive in centro, chi ne ha meno, va in periferia».

E la terza fase?

«È quella in cui la città si è dilatata, tracimando oltre i propri confini, comprese le periferie tradizionali. Fortunatamente è anche emersa la consapevolezza del fenomeno, dovuta agli alti costi sopportati da chi vive in questi agglomerati, costi energetici, costi di congestione e di inquinamento. In termini molto ottimistici si può definire questa come la fase della conservationist city».

Eccoci arrivati a quello che oggi è diventata la città.

«La società periurbana, chiamiamola così, è un territorio di primaria importanza per capire la nuova città. Dal punto di vista morfologico è composta di varie forme insediative: aeroporti, centri commerciali, quartieri residenziali, infrastrutture per il tempo libero, ma anche semplici agglutinazioni di diverso tipo intorno a strade, autostrade, caselli autostradali, ferrovie. Provi ad andare lungo il corridoio che scivola da Piacenza a Forlì: non c´è più uno spazio libero».

Perché non include anche gli stabilimenti industriali?

«Non perché siano scomparsi. Le fabbriche hanno perso l´originaria funzione di ordinamento del territorio che avevano un tempo».

È un processo ineluttabile?

«Nulla lo è. Certamente quegli insediamenti sono favoriti dallo sviluppo tecnologico legato ai modi dell´abitare».

Che vuol dire?

«Le case devono diventare molto più comode e anche più grandi perché si riempiono di macchine. Ecco perché esplode la tipologia della villetta. Un tempo le macchine erano time saving, aiutavano a risparmiare tempo - la lavatrice, la lavastoviglie, che da anni però non registrano significative innovazioni. Adesso le macchine servono a consumare il tempo risparmiato: la tv e il computer fondamentalmente. E non solo. Contribuiscono a trasferire dentro casa, in una specie di agorà privata, ciò che prima era collettivo».

In Italia il fenomeno ha le stesse caratteristiche di altri paesi europei?

«Alla fine del secolo scorso oltre metà della popolazione francese viveva nel periurbain. E questa è una tendenza che, con qualche differenza, si generalizza in tutta Europa. In Italia la proporzione è leggermente inferiore perché resiste un fitto insediamento di città medio-piccole».

La città diffusa, quella, per esempio, che si è propagata nel Nord Est, è molto onerosa. Quel modello economico è in affanno. Quali sono i principali costi?

«Ne parlavamo prima: l´inquinamento nell´area padana è fra i più elevati del mondo, simile a quello nel triangolo fra Chicago, Boston e Washington. La città diffusa o quella che si distribuisce lungo corridoi stradali non può essere coperta da un sistema di trasporto collettivo, che se dovesse rincorrere i brandelli sparsi di città avrebbe oneri pazzeschi. È il dominio delle auto private, che faranno lievitare il costo del petrolio a cento dollari il barile. Ed è il dominio della congestione».

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