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Tullio Gregory
Cinismo, disinteresse, volgarità in questo Paese che non c'è
29 Ottobre 2010
I tempi del cavalier B.
Il linguaggio come specchio del nostro tempo: un’analisi che lascia poche speranze. Dal Corriere della Sera, 28 ottobre 2010 (m.p.g.)

La Domus Aurea, uno dei capolavori architettonici e pittorici dell'età imperiale romana, aperta al pubblico nel 1999, è stata chiusa poco dopo perché infiltrazioni d'acqua hanno portato prima al crollo delle strutture murarie di una delle gallerie, poi di una delle volte, aprendo sul Colle Oppio una voragine di oltre 100 metri quadrati. La zona sopra e intorno alla Domus è stata occupata per anni da rifiuti e da una colonia di senza tetto che vi dormiva la notte. Poco diversa la situazione di Pompei: tutto il parco archeologico è fuori controllo, con pericolo di cedimenti, campo libero per cani randagi, guide e venditori abusivi. In questo desolato panorama vi sono tutti gli ingredienti non solo per descrivere lo stato di molti dei nostri beni culturali, ma per avere tutte le caratteristiche, non metaforiche, del degrado e, forse, dell'inarrestabile declino del nostro Paese. Collasso e crollo delle pubbliche istituzioni, occupate e utilizzate a fini privati, volgarità di comportamenti, decomposizione dei linguaggi e delle varie forme di comunicazione, aggressività e violenza gratuite.

Non parliamo di perduti «valori», parola troppo nobile per essere ancora usurata; parliamo piuttosto di cinismo e di disinteresse per la cosa pubblica, nell'impossibilità di sapere dove va il Paese. Parliamo di mancanza di assunzione di responsabilità, latitanza. nell'affrontare i problemi da parte dei nostri politici che sembrano «sbarcati da Marte». Forse potremmo azzardare un giudizio più radicale, data la diffusa ignoranza della classe politica anche rispetto alle più elementari nozioni di storia civile e istituzionale italiana. Ne è specchio il linguaggio: non dico del «vuoto» e «inconcludenza» dei discorsi politici cui faceva riferimento sul Corriere del 13 ottobre Giorgio Fedel in un'analisi fin troppo alta, ma delle normali espressioni linguistiche sgangherate, dialettali, approssimative, talvolta volgari. Non so quanti nostri parlamentari si sottoporrebbero, come in Francia, alla prova della dictée (in italiano dettato), né quanti supererebbero una prova scritta di italiano corrente come è stata proposta. per regolarizzare gli immigrati. Le poche persone colte (si constati il progressivo deterioramento dei profili dei parlamentari dalla Costituente ad oggi) confermano la norma; e la vuotezza, la banale ripetitività del linguaggio politico sono specchio fedele di una dilagante incultura di potere. - Aspetti non marginali della crisi delle istituzioni, l'assenteismo dei parlamentari, la lentezza degli itinerari legislativi che lascia solo spazio a canali privilegiati per provvedimenti che diventano i «nomodotti» (l'efficace neologismo è di Natalino Irti) di interessi personali o corporativi. L'assalto annuale alla diligenza, in sede di Finanziaria, ne è stato la prova lampante.

Si suole ripetere che la classe politica è l'espressione del (Paese: il che è solo parzialmente vero se ci si riferisce al rapporto numerico dei voti, ma non è esatto per la formazione del Parlamento che, come è noto, è determinata dalle scelte dei partiti, non degli elettori, come potrebbe essere in un'astratta democrazia diretta. Si dirà forse più correttamente che i cittadini subiscono i comportamenti della classe politica e tendono a ripeterli e che la stessa società civile — almeno nelle strutture pubbliche — è governata da orientamenti e scelte di persone che di quella classe sono espressione. Non a caso per questa classe di «marziani» — distratta o incolta — tutto il sistema scuola-ricerca-formazione, fondamentale per lo sviluppo civile ed economico del Paese, non ha particolare interesse, quindi il degrado della scuola pubblica non costituisce problema. Insegnanti — spesso bravissimi — fra i peggio retribuiti in Europa, scuole fatiscenti, biblioteche scolastiche chiuse, massa di precari come conseguenza dell'incapacità dei governi di assicurare regolari e periodici concorsi, progressiva diminuzione dei posti di ruolo per cosiddette esigenze di bilancio.

Non parliamo dell'università: le notizie di questi giorni — sedi semichiuse, professori e ricercatori in agitazione o in sciopero, drastica perdita di posti di ruolo — sono i segni di una progressiva crisi che negli ultimi cinque lustri è stata più o meno promossa o favorita — salvo rari casi — dai vari governi o ministri. La ricerca è umiliata da finanziamenti che collocano l'Italia nei livelli più bassi fra i Paesi industrializzati, mentre la stessa Italia occupa il primo posto nell'Unione Europea per numero di auto blu (cosiddette di servizio) e scorte relative.

Non può dunque stupire se, nelle famiglie e nei giovani, si vada sempre più nettamente manifestando — oltre al disinteresse per la politica la diffidenza perla scuola pubblica: conseguenza, come giustamente sottolineava Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere del 9 ottobre), non solo del «decadimento del nostro sistema scolastico», ma soprattutto della «repulsa del nostro passato» e della diffusa convinzione «che ormai questo Paese non ha più futuro»; potremmo aggiungere, più radicalmente, che questo avviene perché il Paese non c'è più ed è finito insieme all'interesse per il «bene comune», collante di ogni società civile. Di qui l'ostentato disprezzo delle elementari consuetudini di vita associata: i muri infestati da scritte, l'offesa agli edifici pubblici e alle opere d'arte (del resto la visione delle facciate di storici palazzi, come quello del Senato, è stata deturpata da oscene fioriere e pilastri di granito, pistoni, catene e altri simili apparati «deterrenti», almeno per il buon gusto); di qui ancora l'aggressività e la violenza gratuita, la lotta notturna fra bande di giovinastri in piazze storiche delle nostre città, le liti in sala operatoria fra medici incuranti del paziente, l'aggressione di passanti, autisti o ambulanti sotto lo sguardo indifferente dei presenti. Peraltro, quanto a violenza e volgarità, la televisione sembra essere un canale e un modello privilegiato. Il Paese non c'è più, come ormai da più parti libri e giornali tendono a sottolineare: perso il senso delle istituzioni, resta un cumulo di rovine cui fa riscontro la retorica delle «grandi opere», sempre promesse, mai realizzate, forse inutili.

Di qui la mancanza di rispetto non solo per la nostra storia ma per le più semplici forme di solidarietà, la ricerca prepotente del «particulare», personale, di branco o di cricca, l'elogio della «furbizia» nell'evadere le norme, siano esse fiscali o sociali. Del resto, da noi va in prigione solo chi ruba poco. Sembra tramontata ogni speranza in un Paese ove le persone, le istituzioni, le imprese che trovano ancorala forza di sopravvivere e di creare un futuro si muovono in un groviglio di impacci legislativi e sindacali, soprusi burocratici e invidiosa diffidenza; la fuga verso l'estero è uno dei tanti sintomi del nostro declino. Forse a questi soggetti faceva riferimento Bìll Emmott (già direttore dell'Economist) quando riponeva le sue speranze per un futuro migliore nel prevalere della «Buona Italia» sulla «Mala Italia»; «potrebbe farlo ancora, — aggiungeva — se lo si volesse abbastanza». Frattanto ci si può. consolare rileggendo Polibio e facendo propria la teoria dell'inevitabile declino delle forme di governo, quando l'interesse privato prevale sul bene comune; o forse anche riprendendo una folgorante pagina di Machiavelli: «Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcun ordine buono tale che rimangono il vituperio del mondo». L'ostentato disprezzo delle elementari consuetudini di vita associato all'aggressività e alla violenza gratuita Si dirà che i cittadini subiscono i comportamenti della classe politica e tendono a ripeterli.

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