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Guglielmo Ragozzino
Ci risiamo, quel ponte sullo stretto è troppo largo
6 Giugno 2008
Il Ponte sullo Stretto
Ancora dieci, fra gli infiniti motivi per cui il ponte di Messina è (sarà? potebbe essere?) un disastro. Siamo al Verde, supplemento a il manifesto, giugno 2008 (f.b.)

Le grandi opere sono numerose, sorgono in molte zone del paese nell’intendimento di risolvere le necessità più diverse, ma hanno sempre alcuni tratti comuni.

In primo luogo sono, appunto, grandi e occupano molto spazio e usano (o sprecano) molte risorse ambientali, tanto nel corso della costruzione che in quello di funzionamento. Poi modificano per sempre il paesaggio trasformando e deformando la memoria delle cose. I tempi di realizzazione, alla fine, saranno almeno doppi di quelli preventivati e anche il costo finale dell’opera, se va tutto bene, sarà raddoppiato o triplicato. Alla fine di tutto, tra il pubblico si diffonde una sensazione: che l’opera sia esagerata.

Sarebbe potuta essere assai più piccola, cioè meno imponente e meno invadente; tanto più se, terminato il ciclo di vita o di uso; o finiti i soldi prima del completamento, ciò che avviene di frequente; o cambiate le tecniche o le scelte prioritarie della società, le grandi opere del ciclo politico precedente rimangono inutili e abbandonate. O, come si dice, dismesse.

1. Non tutte le interruzioni dei lavori, o i cambi di destinazione in corso d’opera, sono però negative.

C’è un’eterogenesi dei fini perfino nelle grandi opere. Se poi c’è di mezzo l’imperscrutabile fine ultimo, la questione è ancora più impervia per una mente umana. Un caso assai noto è quello del duomo di Siena, la cattedrale di S. Maria Assunta; un avvenimento non infrequente nelle storie delle cattedrali. Le città-stato rivaleggiavano nel costruire cattedrali, che erano la forma massima dell’orgoglio cittadino e la prova del potere della Chiesa, degli ordini religiosi e degli ottimati locali. Ma è avvenuto varie volte che si sia reso necessario ridurre in modo drastico gli esagerati progetti iniziali. Nel caso di Siena, l’edificio attuale, di perfezione assoluta, così ricolmo di arte e di religiosità, è solo il transetto della grande opera prevista inizialmente.

Oggi i tecnici sanno che se la grande opera fosse stata completata con le potenti navate, secondo il progetto di Lando di Pietro, mezza città sarebbe franata sotto il peso. D’altro canto, non è sempre andata così a buon fine. Ogni persona conosce almeno un gigantesco stabilimento abbandonato, spesso prima dell’inaugurazione o un ponte che si erge nella campagna senza senso, senza strade di uscita. Sono le repliche moderne, metafisiche, delle rovine antiche, degli acquedotti romani? Di certo manca la patina della memoria e della bellezza.

2. Per tornare alle grandi opere odierne, molti tra i critici pensano che le dimensioni del manufatto siano strettamente connesse al ricavo delle imprese o dell’impresa che ha curato i lavori. La visibilità, l’imponenza stessa dell’opera non è strettamente necessaria all’uso che è previsto, ma è una sorta di prova della sua indispensabilità. E’ talmente grosso questo manufatto, talmente costoso che deve anche essere necessario: molti ragionano così. Vi è insomma un capovolgimento tra interesse primario e secondario. Quello che conta è scegliere di fare l’opera e farla immensa. Il perché farla lo si deciderà dopo, in un secondo tempo. A qualcosa, comunque, servirà.

3. Si deve insomma immaginare che una grande impresa di lavori pubblici, proprio come una cooperativa di costruzione, sia artigianale sia con migliaia di addetti, hanno sempre bisogno di lavorare, quest’anno, l’anno prossimo, tra cinque anni; e per loro lavorare significa costruire; meglio se in grande.

Ma come nota per esempio Marco Cedolin, autore di un libro assai apprezzabile in argomento, (“Grandi opere – Le infrastrutture dell’assurdo” Arianna editrice), l’interesse per le grandi opere è condiviso da un ceto economico e finanziario, fatto di promotori e industriali, pubblici amministratori e banchieri, giornalisti e professori che spinge per ottenere le costruzioni, un po’ per condividere il profitto connesso alla grande opera, un po’ perché il clima sociale favorevole alle grandi opere è quello che mettein movimento i capitali e consente di realizzare i fini della società nella tale o talaltra generazione; o almeno quelli ritenuti tali. Gli stakeholder, i portatori d’interessi, delle grandi opere sono in ultima analisi assai più numerosi degli shareholder, gli azionisti delle compagnie costruttrici. E’ importante segnalare il ruolo decisivo degli intellettuali e dei media che hanno il compito di convincere l’opinione pubblica e la maggioranza della popolazione dell’utilità del nuovo manufatto, anzi della sua assoluta necessità.

Gli argomenti sono quelli ben conosciuti del confronto internazionale, del ritardo nei confronti degli altri paesi consimili con cui ci si vede in competizione; e un po’ anche quelli, meno economicistici, di erigere un monumento a se stessi, al proprio futuro. Sono in modo un po’ farsesco, gli argomenti dei costruttori di cattedrali, anche se la fede in dio non è proprio uguale alla fede in Mammona.

4. C’è una grande opera di cui nel corso di molti anni è stato possibile studiare a fondo e discutere la progettazione e l’utilità: è il Ponte sullo Stretto di Messina. Si è parlato di poesia e mitologia, di paesaggio e di fauna, di terremoti e di mafie, di ambiente e di denaro, di traffici e di modernità, di imprese pubbliche e di imprese private, di treni e di autoveicoli, di Anas e di Regioni, di 30 campi di calcio consecutivi da appoggiare sul Ponte, di vento forte e di Valutazione d’impatto ambientale, di monumento e di riscatto siciliano, di gare internazionali e di cordate sempre uguali, di progettazione da centinaia di milioni di euro e di penalità da pagare, di associazioni ambientaliste e di sindaci, di consiglieri regionali siciliani e calabresi, di lavoratori assunti e licenziati: sterratori, edili, manovali, manutentori, traghettatori di Messina e di Villa San Giovanni. E se ne parla ancora: il Ponte immaginato è sempre là che ci aspetta.

5. Il ministro delle infrastrutture Altero Matteoli ha scritto una lettera, invitando il presidente della Società Stretto di Messina a riprendere l’annoso progetto del Ponte e portarlo a termine. Pietro Ciucci – questo il suo nome – nel frattempo è diventato presidente e direttore generale dell’Anas, la società pubblica delle strade statali che della Stretto di Messina spa è il maggiore azionista con l’80% delle azioni. Ciucci rimane impassibile all’inattesa comunicazione.

Promette secondo l’indicazione del ministro di cominciare i lavori nel 2010 e di concluderli sei anni dopo. «E chiaro però – ha osservato – che prima è opportuno terminare l’autostrada per la quale siamo a circa il 40% dei lavori totali». Il presidente dell’Anas allude alla A3 (Salerno- Reggio Calabria). Inoltre ha assicurato di essere convinto che «il Ponte sullo Stretto sia come l’ultimo lotto della Salerno-Reggio. Di concerto con il nuovo Governo,adesso il progetto potrà partire».

Ciucci in questo modo ha indebolito, piuttosto che rafforzato la soluzione Ponte. In breve tempo è presumibile che salterà o come presidente dell’Anas o come presidente del Ponte, ridando spazio a uno degli uomini di Pietro Lunardi o di qualche altro giro più alla moda. Corre poi un’altra voce, secondo la quale i quattrini accantonati per grandi opere viarie (Ponte ovvero Palermo-Messina) in realtà sarebbero quelli che il governo dovrà sequestrare per adempiere alla sua promessa in tema di Ici sulla prima casa. Ma trascuriamo questo maligno sospetto.

6. Ciucci aveva però qualche ragione. Era a colloquio con il presidente della giunta di Calabria, Giuseppe Scopelliti che gli faceva presente i disagi profondi, tra tangenziale di Reggio e tratto autostradale tra Bagnara e Scilla, moltiplicati dai problemi di certificato antimafia alla società Condotte, incaricata di molti lavori.

Non poteva dunque dimenticare che il futuro Ponte serve a poco se non ci sono strade che lo raggiungano.

7. Questo dal lato calabrese.

Al lato siciliano ci ha pensato l’ingegner Castelli. Roberto Castelli, senatore leghista, è oggi anche sottosegretario alle infrastrutture, quindi particolarmente autorizzato a dire il suo pensiero a proposito di ponti e strade.

In un’intervista a la Repubblica(Luisa Grion, 24 maggio) Castelli, dopo aver chiarito che da federalista verace ritiene che ciascuno debba decidere sui ponti di pertinenza, mette in chiaro la scarsità di capitale per tutte le grandi opere desiderate. «Quando il governo Prodi decise che quell’opera (il Ponte, ndr.) non sarebbe stata realizzata, i fondi vennero indirizzati ad altre opere per il Sud, come la Messina-Palermo, per esempio. Ora sia chiaro: non è che i fondi destinati al Meridione possono raddoppiare a scapito delle altre opere. Bisognerà fare delle scelte: se ci sarà il ponte probabilmente non ci sarà la Messina-Palermo». Senza strade in Calabria, senza strade in Sicilia, per entrare e per uscire dall’importante manufatto, la sua vita appare piuttosto precaria.

Anche i sostenitori del corridoio Berlino-Palermo avranno qualche dubbio...

8. Carenza di investimenti privati, concorrenza con altre spese per grandi opere e con gli adempimenti di promesse elettorali del tutto alternative, costi che si moltiplicheranno nel corso degli anni e dei rinvii, devastazioni ambientali, tanto per la costruzione del Ponte in sé che per la necessità di servire il Ponte con collegamenti viari e ferroviari molto complessi. In questo contesto trascorrerebbero gli anni che ci separano dal fatidico 2010. Tutto per lo scarso traffico prevedibile . e previsto da tutti gli urbanisti e gli economisti del traffico indipendenti . con la necessità di potenziare, anche in presenza del Ponte, il sistema portuale che comunque deve reggere i traffici aumentati, per effetto della stessa costruzione del Ponte e per unaquindicina di anni, non speculando sulla carenza viaria, per un Ponte, ormai ridotto al significato di monumento celebrativo.

9. Dedicare tanta attenzione a un’opera di così difficile e controverso avvio, ai soldi che mancano e sui quali si sono manifestati troppi appetiti è proprio perché si tratta di un simbolo, di un monumento al fare male dell’intero settore delle grandi opere nel nostro paese. Il vizio di origine è proprio in una non scelta.

C’è un ponte sul Danubio tra Bulgaria e Romania in progetto, ma è lungo un terzo e soprattutto largo un terzo. Tra tutti ponti lunghi esistenti nel mondo, quello che avrebbe dovuto unire Sicilia e resto d’Italia è in pratica l’unico previsto per il traffico di autoveicoli e treni. Non c’è stata alcuna scelta, i sostenitori di auto e di treno, logicamente in alternativa, ovunque, qui non sono in grado di imporsi, di battere l’altro partito, con una proposta capace di prevalere, quali che ne siano le motivazioni. Così i due partiti, del ferro e della gomma, si accordano sul programma di massima, e su altri affari (Grandi stazioni, per esempio). Mettono insieme i sostegni politici, si spartiscono cariche, e assunzioni e finiscono non tanto per cooperare, ciò che sarebbe una novità, ma per non portarsi guerra a vicenda e per accettare un assurdo piano che fa del ponte non forse il più lungo, ma certamente il più largo mai programmato, proprio per l’obbligo di fare correre assieme due linee ferroviarie e otto corsie stradali. Questo significa porre al progetto condiziona-menti e vincoli assai difficili da superare, dal punto di vista della stabilità e dell’enormità di mezzi da mettere in campo. Il risultato è che i numeri dei treni e delle auto messi in preventivo sono entrambi spropositati, quattro o cinque volte maggiori della più rosea delle prospettive. I passaggi effettivi di lunga distanza sono passati (i dati sono tratti da un recente articolo di Alberto Ziparo su la Repubblica –Sicilia) dagli 11 milioni del 1985 ai 6,5 del 2002.

Naturalmente andare da Reggio a Messina e viceversa continuerà ad essere, in presenza dell’eventuale Ponte, molto più rapido ed economico con i traghetti che non con un’automobile, costretta a un giro pesca sui raccordi e poi alla ricerca del posteggio nell’altra città.

10. La grande opera per definizione è però nel nostro paese la Tav. Si tratta di mille chilometri di ferrovia, in parte già costruiti che prosciugheranno ogni altra spesa ferroviaria in Italia per un lungo periodo in una spesa senza pari. Senza pari, nel senso che i nostri modelli di Tav, proprio come il Ponte che non ha saputo scegliere tra i binari e la gomma, non sanno scegliere tra i passeggeri e le merci. “In Francia e in Giappone – scrive Marco Cedolin – sulle linee ad alta velocità passano solo treni passeggeri; in Francia i treni non passano la notte quando viene effettuata la manutenzione….I traffici passeggeri e merci previsti nel progetto (Tav Italia, ndr), sono un puro esercizio di fantasia, totalmente disancorato dalla realtà”. I treni da 300 all’ora hanno bisogno di binari lisci e puliti, impossibili da ottenere se sui binari passano treni merci da 1.000 tonnellate che deformano le rotaie.

Tutto lascia pensare che la linea doppio scopo sarà sempre in manutenzione. Ma in fondo avrà rispettato i suoi due compiti precipui: la forte spesa iniziale che si protrae nel tempo, la prova di forza o di autoesaltazione della classe dirigente, inebriata di sé e della propria modernità, anche se è stata costretta alla demagogia delle merci per ottenere tutti i miliardi di euri necessari a fare la Tav, proprio come in Francia.

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