Land grabbing è il nome molto "british" per definire il fenomeno delle terre nel Sud del mondo che i paesi delle economie ricche o emergenti si accaparrano, per pochi spiccioli: in termini economici, un investimento; in termini sociali, un disastro. Questo terzo millennio annovera ormai una serie di minacce all'agricoltura e, conseguentemente al paesaggio, da cui nessuno può sentirsi al sicuro. Perché se ancora non si fosse capito, ciò che minaccia la nostra agricoltura minaccia il territorio, la sicurezza di chi lo abita, la sostenibilità della nostra vita sulla terra, la bellezza e in definitiva la nostra stessa esistenza.
Ci sono tre fenomeni che in Italia stanno esercitando un'azione combinata che porta dritto a fenomeni simili al land grabbing, che strappano la terra a chi la coltiva per consegnarla a chi specula. Il primo di questi tre attori è la Pac (Politica Agricola Comune) in vigore fino alla fine del prossimo anno. Un sistema di diritti a ricevere sovvenzioni dall'Unione Europea che vengono erogati in base al valore della produzione aziendale non attuale, ma del triennio 2000-2002. Questo significa che aziende che producevano generi un tempo molto sovvenzionati dall'Ue (tabacco, barbabietola da zucchero, riso, solo per fare alcuni esempi) si trovano con una disponibilità finanziaria annuale ingente. E sebbene questo meccanismo sia stato pensato nobilmente, per favorire l'uscita «morbida» dal regime dell'aiuto alla produzione per entrare nell'economia di mercato, in questo interludio sta creando guasti.
Nei Comuni delle Alpi sono in corso in questo periodo le trattative per assegnare i pascoli alpini, che da secoli i pastori transumanti, che svernano in pianura e salgono alle malghe d'estate, mantengono e curano impedendone la riconquista al bosco, garantendone la sopravvivenza della ricca flora e prevenendone il dissesto idrogeologico.
Spesso sono trattative fatte guardandosi negli occhi, ma quando il Comune deve fare cassa e nonè attento ad aspetti diversi da quello economico, si procede ad aste con busta chiusa. Questo fa già lievitare i prezzi per i pastori, ma tutto sommato resta un percorso fisiologico. Quando però la busta sigillata è quella di un allevatore intensivo di pianura (che non porterà mai i capi in montagna, però riesce a far apparire più grande la sua azienda e può così ingrassare ancora più animali, perché in teoria ha più terra su cui smaltirne il letame) o di un land grabber di casa nostra che può investire i proventi di una Pac divenuta strumento d'iniquità, tutto si complica. I prezzi dei pascoli lievitano, anche di dieci volte. I pastori per non restare senza terra si prestano ad andare senza contratto a mangiare l'erba che lo speculatore si è accaparrato. Nei casi limite, ma già documentati, lo speculatore minaccia di fare la propria offerta ed estorce il pizzo dai pastori in cambio del proprio impegno a restare fuori dall'asta.
Il secondo fenomeno estremamente minacciosoè quello delle agroenergie. Manco a dirlo, anche qui come per la Pac la questione consiste nell'assenza di misura e della distorsione speculativa che gli incentivi statali possono determinare. La produzione di biogas è un modo razionale di sfruttare i reflui zootecnici (liquami), ricavandone energia. Tuttavia, quando invece che ad allevatori che danno vita ad un impianto che serva alle loro aziende assistiamo a proposte che vengono da società di capitali, che vorrebbero realizzare impianti molto grandi, in aree lontane da ogni esigenza di smaltimento reflui, con la conseguenza di far girare decine di camion al giorno carichi di deiezioni animali, già ci troviamo assai meno d'accordo. Se per di più, asserviti al fine di produrre biogas, migliaia di ettari agricoli sono dedicati a colture che non sfameranno mai nessuno (perché per fare il biogas i vegetali sono meglio delle deiezioni) ma finiranno nei digestori per produrre più energia e far lievitare i profitti, allora siamo proprio contro. Spero sia chiaro: non si può essere contro il biogas, ma si deve essere contro questo suo uso, che invece di contribuire a risolvere un problema ambientale, lo moltiplica e ci innesta su anche una logica di puro profitto.
Così, ancora una volta, scopriamo che è la concorrenza tra quanto può spendere il contadino e lo speculatore a fare la differenza. E se pensiamo che questa diversa capacità di spesa la determinano l'Ue e lo Stato italiano, francamente ci arrabbiamo. Perché gli aiuti servono se garantiscono un reddito che non faccia dei contadini dei paria, ma non possono servire alla speculazione di chi sfrutta la terra senza riguardo per la fertilità e la destinazione alimentare. E il terzo fattore di land grabbing conferma questa analisi: l'uso delle campagne per scopi non agricoli infetta il tessuto delle campagne e distorce la concorrenza. Quando un comune autorizza l'ennesima nuova cava, l'ennesimo ampliamento residenziale, l'ennesima «area produttiva», che riempie le campagne di capannoni vuoti circondati dai rovi, non solo sta rincorrendo uno stile di sviluppo che appartiene già al passato. Sta determinando una perdurante alterazione delle dinamiche dei prezzi della terra, che mortifica chi vuole onestamente vivere di agricoltura: se vuoi affittare la terra, ma il cavatore di ghiaia può offrire dieci volte l'importo di un canone equo, come potrai spuntarla a meno di trovare un proprietario filantropo? Abbiamo il dovere di esigere dallo Stato, in tutte le sue componenti, e dall'Unione Europea di cui siamo parte, un'attenzione senza precedenti agli effetti distorsivi di cui possono essere oggetto strumenti necessari come gli aiuti agli agricoltori, gli incentivi alle energie verdi, i piani regolatori. E questo, anche se pensiamo che le attività di speculatori, finanzieri e predoni del territorio non ci riguardino. Perché, come avrebbe detto De André, se anche ci sentiamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.