Giovanni Tizian racconta in un libro (La nostra guerra non è mai finita, Mondadori)la sua vita blindata e come cerca la verità sulla tragedia che lo segnò per sempre.
La Repubblica, 15 marzo 2013
Una scorciatoia dall’anonimato alla notorietà. Per qualcuno addirittura un modo per risparmiare su auto e benzina. In realtà una vita vissuta sotto protezione militare è una vita che non ti appartiene più, che smette di essere tua. Eppure sembrano pochi ad accorgersene. Diventa necessario chiedere il permesso, avvisare in anticipo su qualunque spostamento, anche minimo. Devi essere autorizzato a entrare in un ristorante, persino in un bar a bere un bicchier d’acqua se ti viene sete all’improvviso. E ogni volta che mi capita di incrociare la vita di una persona finita sotto scorta, ogni volta che mi imbatto in un altro cui è stata data la protezione – testimone di giustizia, magistrato, giornalista – la mia speranza di tornare a vivere libero svanisce.
Quando per la prima volta mi hanno parlato di Giovanni Tizian, mi si è stretto il cuore. Un altro cronista finito sotto protezione, un’altra vita che si blinda, che si ferma, si blocca. Un ragazzo di trent’anni, volto pulito, nelle foto uno sciarpone come unica protezione. Da quando vivo sotto scorta ho incontrato molte persone nella mia stessa condizione e per ognuno di loro ho sentito che la mia sofferenza si moltiplicava.
La nostra guerra non è mai finita è un libro di un cronista che non si sottrae alla sua ferita. Non solo per l’analisi che Giovanni Tizian fa sullo stato dell’Italia e su come, da Nord a Sud, non smetta di scontare la miopia della classe dirigente che tratta tutto ciò che è connesso alle organizzazioni criminali come problema secondario rispetto alle urgenze economiche. Ma anche per il racconto della sua vita e dei ricordi di una famiglia costretta all’auto esilio. Costretta a lasciare la propria terra. Tizian scrive: «Le storie degli emigranti sono sempre tristi. Nascondono pochi segreti, tante paure e lunghe nostalgie». E queste storie le racconta, ma non c’è soluzione. Non c’è giustizia per l’azienda materna distrutta, per un padre assassinato. Tutto, appena entra nel regno dominato dalle organizzazioni criminali, si sfuma. Tutti i contorni diventano indefiniti. Come una sorta di incredibile pudore. Come se un omicidio o una ritorsione, se commessi dalla ’ndrangheta, pretendessero silenzio. Ma è il dolore a meritare rispetto, il dolore di chi ha sofferto e pagato senza colpa. Le parole di Tizian si articolano con pudore, sembrano guidate da un dovere e da una rara voglia di sfogo. La nostra guerra non è mai finita è l’educazione sentimentale di un ragazzo meridionale cresciuto al Nord e finisce col mostrare come Sud e Nord non siano affatto mondi separati, ma aspetti complementari della stessa tragedia. Come le organizzazioni criminali costituiscano, più delle autostrade, più della lingua comune, più della comune appartenenza a un’unica nazione, il vero tratto unificatore tra due mondi.
Giovanni Tizian è cresciuto a Bovalino, nella Locride, e a sette anni con la madre e la nonna si è trasferito a Modena per ricominciare una vita lontano dalla Calabria. Da adulto, dopo gli studi universitari, decide di recuperare la memoria del passato, decide di recuperarla e di cercare se possibile quella giustizia che per decenni alla sua famiglia era stata negata. Il padre di Tizian «era un funzionario integerrimo, una brava persona, limpida e senza ombre, tanto da non consentirci di rintracciare indizi dai quali partire per risolvere il caso». Ecco cosa disse alla famiglia l’investigatore che si occupava del caso. Una vita troppo pulita perché si riuscisse a fare chiarezza su ciò che gli era accaduto. È con questa consapevolezza che Giovanni Tizian inizia a fare domande per capire perché suo padre fosse stato ucciso, e perché poco tempo prima avessero dato alle fiamme l’azienda materna.
Tutto inizia al Tribunale di Locri. Giovanni chiede il fascicolo dell’omicidio di Giuseppe Tizian e dovrà aspettare due anni perché venga trovato e gli venga consegnato. Voleva ridare dignità a suo padre e con lui a tutte le vittime innocenti dimenticate dalla società. Da lì scopre che una quantità enorme di indizi erano stati tralasciati, che le piste da seguire non erano state battute che in superficie. Capisce che quando un omicidio, una ritorsione, fosse anche una vendetta per motivi passionali, porta la firma delle organizzazioni criminali, spesso viene circondata da silenzio: che nessuno ne parli, che tutto cada nel dimenticatoio. Un mobilificio dato alle fiamme, un dipendente della filiale di Locri del Monte dei Paschi di Siena ucciso in quelle terre non erano un’eccezione, ma la regola. Troppe le piste o nessuna.
Un libro dal ritmo diaristico che si salda all’inchiesta, tassello importante di un percorso battuto da altri giovani giornalisti e scrittori meridionali trasferiti al Nord, che hanno sentito l’urgenza di raccontare il potere criminale e a cui questo libro si collega. Penso a Giuseppe Catozzella con il suo bellissimo Alveare, o a Biagio Simonetta con Faide. L’impero della ’ndrangheta. Il Sud raccontato dal Nord. Da un Nord sempre meno diverso, il cui dna negli anni è mutato: terra di investimenti e di conquiste. Luogo in cui da vittime ci si trasforma in carnefici. Da sfruttati in sfruttatori. E Tizian lo racconta sino infondo senza risparmiarsi.
Ecco, chi vuole sapere quanto costa scrivere in Italia, può visitare il sito di Osservatorio Ossigeno (www.ossigenoinformazione. it) e vedere quante sono le intimidazioni che ogni giorno subisce chi scrive, chi informa, chi fa ricerca. Quante sono le vite minacciate note e meno note. Da lì può capire che situazione vive l’Italia. L’osservatorio, gestito con coraggio da Alberto Spampinato, raccoglie e diffonde informazioni, e da anni tutela attraverso il racconto cronisti e giornalisti che hanno osato svelare i meccanismi con qualunque mezzo.
La nostra guerra non finirà mai, ho pensato, leggendo questo libro. E l’ho pensato soprattutto se il prossimo governo, qualunque esso sia, in qualunque modo verrà formato, non affronterà come problema prioritario la lotta alle mafie nel nord Italia. Perché quella normalità che Tizian invoca e che le mafie ci hanno tolto, non appartiene solo a noi scortati, protetti, minacciati, ma anche e soprattutto a questo Paese che non ci consente di vivere come uomini liberi. Responsabilità delle organizzazioni criminali, certo, ma anche del sistema che le alimenta. Che le nutre. Che non le blocca. Che consente loro di continuare a crescere, indisturbate. La lotta alle mafie non è un corollario, una battaglia secondaria rispetto alle priorità economiche, ma l’unico modo perché il nostro sia un paese realmente democratico.
Uso la riflessione su questo libro, rifletto sulla vita di Giovanni, ennesimo giornalista che sta pagando un prezzo alto per aver fatto il suo lavoro, per fare un appello a ridare una vita normale a chi è scortato in Italia. A liberare i corpi e le parole dal pericolo. Fino a quando si continuerà a vivere circondati da persone armate solo per ciò che si è scritto e detto, non riesco a definire il mio Paese una democrazia.