Luci e ombre nel programma del neo ministro per i beni e le attività culturali illustrato alle commissioni parlamentari il 23 maggio scorso...>>>
Luci e ombre nel programma del neo ministro per i beni e le attività culturali illustrato alle commissioni parlamentari il 23 maggio scorso.Apprezzabile la buona volontà di superare il consueto carattere general-generico di documenti analoghi anche molto recenti, intenzione che traspare più che dal testo in sè, dagli allegati finali, dove è finalmente possibile avere qualche dato sulle risorse economiche e di personale del Ministero, sulla loro ripartizione e sul loro andamento negli ultimi dieci – otto anni (non era scontato per un’amministrazione notoriamente omertosa).
Scontato invece che l’autocritica su quest’ultima stagione ministeriale da dimenticare, sia piuttosto debole: il documento risulta palesemente ispirato, in molti punti (paesaggio, rapporti internazionali, archeologia), da quella stessa dirigenza responsabile dell’attuale situazione di degrado sottolineata dall’insieme dei media e del mondo culturale, non solo italiano.
Però in un orizzonte storico e politico eccezionale quale è quello attuale, un’analisi meno edulcorata che non indulgesse in autoassoluzioni sarebbe non solo fortemente auspicabile, ma costituirebbe il primo indispensabile passo per ripartire. E per cominciare a delineare una politica culturale degna di questo nome: non solo quindi un elenco di buone intenzioni (talora contraddittorio), ma uno schema che individui pochi obiettivi di fondo, priorità d’azione chiare e risorse necessarie, affrontando alcuni nodi ineludibili.
A partire dalle risorse economiche: l’immagine che emerge dal documento del 23 maggio riguardo a questo tema è piuttosto quello di una navigazione a vista. I soldi non ci sono e non ci saranno (per tutta la legislatura?), ergo non resta che rivolgersi al soccorso di chi può: privati e fondi europei su tutti.
La grande penalizzata dei tagli di bilancio che hanno colpito il Mibac è la tutela, le cui risorse risultano decurtate negli ultimi 5 anni di oltre il 58%: impossibile, in questa situazione, esercitare quelle attività di manutenzione programmata che pure lo stesso documento correttamente individua come prioritarie operazioni di prevenzione del rischio sismico.
Ma la crisi incombe e molto prudentemente, nel documento, a parte l’evergreen dell’incentivazione della fiscalità di vantaggio, non si individuano altri percorsi. Eppure vi è un ambito dove il Ministero potrebbe, finalmente, cominciare ad esercitare una tutela efficace e addirittura elaborare una politica culturale vera e propria praticamente senza risorse aggiuntive: il paesaggio.
Il paesaggio ricorre in verità in più punti delle linee programmatiche, ma questa dispersione appare piuttosto indice di una mancanza di visione complessiva: consumo di suolo, tutela e qualità del paesaggio, centri storici sono parti di un tutto inscindibile e andrebbero ricollocati non pensando, come sembra di capire, a distinti provvedimenti normativi da elaborare ex novo o da riprendere, ma all’interno di quel processo imprescindibile che è la pianificazione paesaggistica, come normata dal Codice.
La costituzione, cui si allude nel documento, di un apposito gruppo di lavoro per la “manutenzione” del Codice alla cui presidenza – come trapela da varie fonti – sarebbe chiamato Salvatore Settis è un punto fermo che aiuta a sperare. I compiti di questo gruppo di lavoro, però, oltre che sugli aspetti accennati nelle linee ministeriali (normativa sui monumenti nazionali) dovranno essere prioritariamente rivolti proprio alla parte sul paesaggio, investita dagli innumerevoli attacchi ai fianchi portati soprattutto dalla Conferenza delle Regioni e dal mondo dell’imprenditoria edile.
Un esempio fra tutti: il provvedimento di autorizzazione paesaggistica, l’ultimo baluardo rimasto nelle mani delle organismi territoriali di tutela, le Soprintendenze. L’esercizio dell’autorizzazione paesaggistica, provvedimento necessario a qualsiasi trasformazione si voglia operare sul territorio in aree tutelate, in questi ultimi anni è stato oggetto di pressioni fortissime e bersaglio preferito di un complesso farraginoso – ma a suo modo perfettamente congruente – di norme ricadenti sotto l’etichetta passepartout di “semplificazione” : il grimaldello usato per operare una contrazione generalizzata degli spazi riservati al sistema delle tutele in nome di una fantomatica agevolazione della ripresa economica (le grandi opere, in particolare). Suona pertanto minacciosamente contraddittorio il documento di indirizzo, laddove afferma che “occorre semplificare alcune procedure eccessivamente burocratiche” (punto 2).
Ma ad oltre cinque anni di distanza dall’entrata in vigore dell’ultima versione del Codice, bisogna riconoscere che la legge, in mancanza di una volontà politica adeguata, non è stata sufficiente ad innescare un processo virtuoso di tutela e il disegno prefigurato è tuttora largamente incompiuto. Nessuna delle Regioni tenute alla pianificazione paesaggistica ai sensi del Codice si è dotata di un piano paesaggistico conforme al Codice stesso, un terzo risulta in uno stadio iniziale o addirittura non ha ancora attivato l’iter di copianificazione. Nulla si sa di quell’Osservatorio nazionale del paesaggio, istituito nel 2008 ai sensi dell’art. 133 del Codice per divenire il presidio di indirizzo e controllo dell’operazione di pianificazione e mai operativo.
Ancora più grave è l’ormai conclamata rinuncia - organizzativa, culturale, politica - da parte del Mibac a governare le operazioni della pianificazione, a partire dalla redazione delle “linee fondamentali sull’assetto del territorio” previste dall’art. 145, tuttora mancanti seppur indispensabili a garantire una cornice unitaria all’insieme del paesaggio nazionale. E se manca la cornice – imprescindibile – delle linee guida, manca anche una definizione puntuale del contenuto degli accordi di pianificazione, le regole e i criteri affinchè i piani possiedano le prescrizioni e le cogenze necessarie a tutelare l’identità dei paesaggi propri delle singole regioni.
Purtroppo, sotto questo punto di vista, il documento del ministro, non solo non riconosce (punto 10) la gravità dei ritardi accumulati e non accenna minimamente alle linee fondamentali, ma sembra addirittura ridurre l’attività della copianificazione alla semplice ricognizione dei vincoli. Si tratterebbe dello svuotamento definitivo del carattere innovativo della copianificazione: il tentativo di definire il destino del territorio italiano a partire da un confronto paritario – istituzionalmente – fra Stato e Regioni, ma chiaramente gerarchico – costituzionalmente – perchè mirato a salvaguardare, innanzi tutto, il paesaggio italiano, riconosciuto come patrimonio comune della collettività da anteporre a qualsiasi obiettivo economico.
Il testo programmatico conferma purtroppo la deriva interpretativa sposata, in una convergenza viziosa, da Ministero e Regioni, in virtù della quale la copianificazione si sta trasformando in una semplice operazione di maquillage normativo da un lato, e di compromesso al ribasso, nei contenuti: ampi, lirici preamboli e, a volte, accurate analisi dal punto di vista culturale e geomorfologico sono anteposte, esornativamente, ad un insieme di disposizioni quasi mai a valore prescrittivo, quasi sempre inutili ai fini della tutela, quando non palesemente in contrasto e pertanto incostituzionali.
Depotenziata la pianificazione paesaggistica, ben poco rimane in mano al Ministero per governare la partita della tutela del paesaggio, tanto che lo stesso testo ministeriale è costretto a debordare in spazi di pertinenza non propria, laddove invoca, per il contenimento del consumo di suolo, nuove norme urbanistiche, oppure quando rivendica per il progetto architettonico una funzione di panacea universale contro gli orrori delle periferie urbane, in nome di una qualità perseguibile con strumenti giuridici (ma una Dives Misericordia, chiesa pur di altissima qualità architettonica, non basta da sola a riqualificare l’anonima distesa cementizia di Tor Tre Teste).
L’incomprensione della funzione della pianificazione paesaggistica traspare del resto in tutto il documento, anche laddove, ad esempio (punto 14), si proclama la necessità della ratifica della Convenzione di Malta. Quel documento fu elaborato, nel 1992, in seno al Consiglio d’Europa per proporre, ai paesi sottoscrittori, un insieme di linee guida sulla protezione del patrimonio archeologico minacciato dai lavori edilizi e infrastrutturali (in particolare le grandi opere): la firma del Mibac manca da vent’anni non per casuale distrazione, ma perchè l’Italia, al contrario di molti paesi europei, non ha mai voluto inserire le attività di archeologia preventiva fra le operazioni indispensabili alla pianificazione territoriale. In questo modo scontiamo su questo tema vitale per la tutela del patrimonio archeologico un ritardo drammatico che è alla base della situazione di precariato diffuso che contraddistingue le ultime due generazioni di
archeologi professionisti.
Il rilancio politico della pianificazione paesaggistica, in questo senso, non è quindi uno dei tanti punti possibili dell’azione governativa del Mibac, ma “il” punto fondativo di una riqualificazione dell’intero sistema delle tutele.
Sulla pianificazione paesaggistica, di inalterata attualità (purtroppo), v. Primo Rapporto sulla pianificazione paesaggistica in Italia, a cura di Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi, Roma, 2010.