Chi ha paura dei soprintendenti
Adriano La Regina
La Stampa del 24 novembre 2004 pubblica un ampio stralcio della denuncia del responsabile dei Beni archeologici romani scritto per il la rivista Micromega: «Molti ambienti politici e imprenditoriali alimentano il mito di uno strapotere che non abbiamo, per giungere alla definitiva soppressione del nostro ruolo»
L’insofferenza nei confronti della tutela esercitata dalle soprintendenze è una vecchia storia. Nel dopoguerra, quando ogni freno alla peggiore speculazione edilizia era stato rimosso con il pretesto delle urgenti necessità, venne accreditato presso l'opinione pubblica italiana il luogo comune della ricostruzione e dello sviluppo economico fortemente ostacolati dalla tutela archeologica. In realtà da parte di alcune soprintendenze si tentava solamente di evitare in quegli anni di disordinata trasformazione i maggiori guasti che si stavano producendo al territorio nazionale e di cui tuttora dobbiamo lamentarci.
Da allora l'applicazione dei «vincoli archeologici», come venivano comunemente definiti i provvedimenti di riconoscimento del notevole interesse archeologico dei suoli, è divenuta sempre più difficile. Procedure estenuanti sono state progressivamente introdotte per rallentare l'esercizio della tutela con il risultato di favorire le attività speculative ai danni del patrimonio archeologico. Nel contempo, a partire dalla meta degli anni Ottanta le soprintendenze subivano un graduale e inarrestabile indebolimento con il blocco delle assunzioni di personale tecnico-scientifico. Potrà sembrare incredibile, ma sono occorsi circa vent'anni, a partire dal 1980, per riuscire a vincolare solamente un terzo del comprensorio archeologico della via Appia nel territorio del comune di Roma. Si calcolò allora che per riuscire a proteggere tutte le aree ed i monumenti di evidente interesse archeologico nella città di Roma sarebbero stati necessari, con quelle procedure e in quelle condizioni di efficienza operativa, almeno duecento armi.
Con le nuove norme approvate quest'anno la procedura prescritta per adottare un vincolo è divenuta ancora più defatigante. Alle difficoltà già descritte si è infatti aggiunto un altro non facile passaggio burocratico, il parere di un comitato regionale di coordinamento composto da tutti i soprintendenti della regione. È evidente l'intento di vanificare quelle pur minime capacità che restavano alle soprintendenze per esercitare i proprii compiti. Questa misura ulteriormente restrittiva nei confronti dell'azione di tutela sarebbe stata adottata per frenare un eccessivo potere dei soprintendenti, perché la nuova riforma, con le parole del ministro Urbani in un'intervista del 26 settembre, «"uccide" alla radice il potere monocratico di quelle che talvolta erano vere e proprie satrapie, sostituendolo con decisioni prese in modo collegiale». È un riferimento specifico alla procedura instaurata per l'applicazione dei vincoli, l'unico caso in cui il nuovo regolamento richieda esplicitamente il parere collegiale nel comitato regionale.
Questo dello strapotere dei soprintendenti è veramente un mito perdurante, tuttora alimentato dall'intento, ormai non più sottaciuto da parte di molti ambienti politici e imprenditoriali, di giungere alla definitiva soppressione delle soprintendenze. I vincoli, infatti, seppure proposti dai soprintendenti come è tuttora secondo le nuove norme, in passato sono stati sempre approvati solamente dai ministri o dai direttori generali, dopo l'esame da parte di ispettori centrali e di altri uffici ministeriali. Ulteriori valutazioni di legittimità nella maggior parte dei casi sono scaturite dai ricorsi ai tribunali amministrativi, che comportano anch'essi tempi lunghissimi. La procedura era già così arzigogolata e disarmante da rendere eroico e al tempo stesso inoffensivo qualunque intento di esercitare regolarmente quelle funzioni di tutela che la legge attribuisce alle soprintendenze. Adesso è divenuto praticamente impossibile.
Insofferenza ancora maggiore si è manifestata in anni recenti nei confronti della gestione pubblica del patrimonio culturale, sulla quale è stato gettato discredito nonostante i risultati raggiunti, che per fortuna ci vengono riconosciuti almeno negli ambienti internazionali, e nonostante le condizioni indegne in cui sono state intenzionalmente tenute le nostre istituzioni culturali. Si è infatti venuto vieppiù affermando il mito dell'impresa nella valorizzazione del patrimonio culturale. [...]
L'Italia era riuscita a crearsi, dalla fine dell'Ottocento, un sistema per la difesa del patrimonio culturale, con buone capacità di ricerca e di vera valorizzazione; un sistema inteso al riconoscimento, allo studio e alla salvaguardia dei beni di interesse storico, artistico e del paesaggio. Questa struttura è stata gradualmente costruita attraverso tutte le difficoltà dei tempi, certamente meno opulenti di quelli attuali, e ha dato lustro al paese sul terreno della conoscenza e della conservazione. Adesso viene svilita e umiliata con il depauperamento delle sue capacità scientifiche, con la riduzione della sua efficienza e con una politica ormai intesa ad altro. È infatti luogo comune che la conservazione del patrimonio culturale non connessa alla valorizzazione sia attività sterile. A parte l'ambiguità dei termini che non lascia mai intendere se il patrimonio culturale sia l'oggetto della valorizzazione oppure se esso ne sia lo strumento con finalità di profitto, tutto questo sembra dimostrare come siamo ormai giunti al tramonto di una delle più nobili glorie della cultura italiana.