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"Che insegna la vicenda del PTCP"
14 Maggio 2004
Lettere e Interventi
Antonio Di Gennaro (NA) 05.05.2004

Caro Eddy,

cercando di onorare, ove mai fosse davvero possibile, il vecchio motto del giornalismo anglosassone (“i fatti distinti dalle opinioni”), dopo il breve aggiornamento sulle vicende del Ptcp di Napoli ti invio alcune riflessioni sparse sull’accaduto.

Ti dirò subito ciò che penso: il Ptcp di Napoli non può assolutamente essere considerato un infortunio, un incidente tecnico di percorso, ma piuttosto il frutto compiuto del pensiero urbanistico oggi dominante in Campania. L’assunto alla base di tale pensiero è che i problemi di sviluppo in questa regione siano legati ai troppi vincoli, di varia natura, che ostacolano il libero dispiegarsi dell’iniziativa privata. Se il problema è questo, la soluzione è quella di rimuovere senza indugio lacci e lacciuoli, fidando nelle razzenti riserve di imprenditorialità, oggi impossibilitate ad esprimersi perchè mortificate dal dirigismo e dalla burocrazia. La pianificazione urbanistica deve concorrere solertemente a tale obiettivo individuando le più ampie praterie di spazi e territori preventivamente disponibili per la programmazione negoziata. Così, un articolo delle norme tecniche di attuazione del Ptcp di Napoli recita che qualunque iniziativa proposta da TESS, la più influente agenzia di sviluppo locale operante in provincia, debba costituire automaticamente variante al piano. Seguendo tali ragionamenti il Ptcp di Napoli introduce un’interessante novità nelle tecniche di pianificazione istituendo, cinquant’anni dopo le gloriose green belt inglesi, quelle che potremmo definire grey belt o cinture grigie, aree rurali a trasformabilità incondizionata che rappresentano il cospicuo margine espansivo della già ipertrofica conurbazione partenopea, a disposizione per le più varie iniziative di sviluppo, da contrattarsi rigosamente caso per caso. Queste aree, in prevalenza rurali, sono pudicamente definite dal piano come aree di riqualificazione urbana e costituiscono il 45% del territorio provinciale.

Insomma, il motto è: ciascuno padrone in provincia sua.

E’ davvero singolare osservare come simili ragionamenti, impregnati all’apparenza di pragmatismo e fiducia liberale nelle capacità autopropulsive ed autoregolative del mercato, siano oggi messi in difficoltà da analisi di soggetti autorevoli, non precisamente tacciabili di simpatie dirigistico-regolative.

Così, l’Osservatorio economico regionale coordinato dal professor Giannola, nel suo Rapporto sull’economia e la società in Campania edito recentemente da Il Mulino, evidenzia come il differenziale positivo di sviluppo registrato in questi ultimi anni rispetto ad altre regioni meridionali, sia in prevalenza legato all’iniziativa pubblica, soprattutto nel settore infrastrutturale, grazie ad un più efficiente impiego dei fondi comunitari. L’iniziativa privata latita drammaticamente con l’eccezione, manco a farlo apposta, di alcuni settori di punta fortemente legati alla qualità territoriale: turismo, vino, fiori. Tutto ciò, nonostante il pletorico ricorso alla programmazione negoziata, della quale il rapporto mette in evidenza l’eccesso di spontaneismo e lo scarso contributo alla crescita, con la proposta di istituire una sorta di cabina di regia per assicurare un più stretto coordinamento con le linee di politica regionale.

Insomma, sembrerebbe proprio che non sia tanto il presunto deficit di flessibilità a deprimere l’iniziativa privata, quanto piuttosto l’assenza di politiche di governo del territorio e dell’economia credibili, condotte da amministrazioni in grado di agire con continuità, coerenza, autorevolezza.

In fondo, come molte delle espressioni del pensiero unico egemone di questi tempi, il tipo di urbanistica che ha partorito il Ptcp di Napoli ha una matrice sostanzialmente ideologica e regressiva.

Ideologica perché si basa su astrazioni contrabbandate per assiomi indiscutibili (efficienza e efficacia sono sempre e solo prerogative dell’iniziativa privata; la difesa incondizionata degli interessi particolari è la strada maestra per conseguire l’interesse pubblico).

Regressiva perché rifiuta di confrontarsi con la complessità dei sistemi sociali, territoriali ed ambientali e, con un riflesso assolutamente urbanocentrico, torna a circoscrivere il suo raggio d’azione alla città ed alle sue trasformazioni, lasciando ad enti di settore quanto più possibile subalterni (autorità di bacino, soprintendenze, enti parco) il compito di rappresentare nel processo decisionale le ragioni, senz’alcun dubbio subalterne, degli ecosistemi, dei paesaggi, della sostenibilità. Questo modo di agire sarà pure praticabile con successo in qualche parte nel mondo, ma assolutamente non in una provincia, come quella di Napoli, che proprio su una gestione responsabile dei rischi e delle non comuni risorse ambientali potrebbe, meno avventuristicamente, basare un percorso autonomo di sviluppo.

Mi sembra un'analisi convincente, e terribile. Speriamo che la pianificazione territoriale della Regione, che è in corso, la contraddica.

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