«Dopo le molte e più o meno discutibili parole di uomini di buona volontà, è difficile non porsi il problema del "che fare" (senza rimuovere l’essenziale "che pensare")».
Il manifesto, 14 giugno 2016
Come molti sanno Che fare è il titolo di un celebre scritto di Lenin, a sua volta citazione dell’omonimo e forse meno celebre (ma molto più bello) romanzo di Cernyševskij. Un libro-manifesto determinante per la vittoria dei bolscevichi nella rivoluzione d’Ottobre. Ma anche - mi sento di dire - per i tragici disastri che una certa concezione del potere rivoluzionario ha prodotto in seguito. Tempo fa un illuminato dirigente del vecchio Pci ci esortava a concentrarci piuttosto sul che pensare, prima di agire perseverando in antichi errori…
L’interrogativo di quel titolo, con la coorte di dubbi che si porta dietro, mi è tornato in mente leggendo i numerosi interventi maschili che si sono schierati contro la violenza sulle donne, spesso adottando per certi versi, e più o meno consapevolmente, quel «partire da sé» teorizzato e praticato dal femminismo.
Dall’appello pubblicato sabato 11 da questo giornale, agli interventi di Christian Raimo, Nicola La Gioia, Michele Serra, Paolo Di Stefano, per citare solo gli ultimi che ho letto su alcuni siti e quotidiani nazionali (una raccolta si sta formando su maschileplurale.it): in genere mi ha colpito l’opinione, diffusa, che il problema riguardi il persistere di una cultura maschilista del possesso e della forza dalla quale è difficile dirsi completamente immuni.
Ascoltando e leggendo poi altre notizie di questi giorni mi rimbalzava l’idea che un filo rosso, o per meglio dire nero, e sessuato, leghi in qualche modo l’omofobia omicida e terrorista di Orlando ai tumulti degli hooligan di varie nazionalità «europee», ai femminicidi di cui si discute nel bel paese.
Ovvio che dire così espone al rischio di azzerare le enormi differenze che connotano comportamenti violenti tanto distanti nelle modalità, nelle conseguenze, nei contesti, nelle stesse «motivazioni».
Eppure l’ipotesi che qualcosa sia da ricondurre a una incapacità di vivere il proprio corpo e la relazione con l’altro/a radicata nella sessualità maschile così come è codificata in tante culture pur molto diverse, non mi sentirei di escluderla completamente.
C’è chi mette poi in relazione la violenza personale e sociale con gli effetti della crisi economica, e del malessere che crea, esasperato da un sistema «neoliberista» che accentua il narcisismo e l’edonismo solitario.
Un mix deleterio soprattutto per un più fragile equilibrio dell’ex «sesso forte»? Un esito che francamente eviterei è quello di definirsi «vittime» di un sistema di potere di cui riconosciamo la matrice patriarcale. Prima vediamone le connivenze.
Dopo le molte e più o meno discutibili parole di uomini di buona volontà, è difficile non porsi il problema del che fare (senza rimuovere l’essenziale che pensare).
La prima cosa che mi viene in mente è una proposta molto modesta: incontrarsi, mettere a confronto le proprie idee e le proprie esperienze. Non accontentarsi di firmare accorati interventi e appelli.
Un secondo passo può essere interrogarsi - pubblicamente? - su come si agisce e interagisce in ogni contesto, su che cosa e come si desidera: la famiglia e le proprie relazioni affettive, il proprio essere padri (o non esserlo), i luoghi di lavoro, la politica, il sindacato, e il rapporto che viviamo con quel tanto o poco di potere reale che siamo pronti ad ammettere di gestire solo perché uomini.
Fatti e non parole? Ma i fatti possono essere anche nuove parole, se nascono da una diversa pratica di scambio consapevole e condivisa. Tra maschi. E con le donne che desiderassero interloquire.