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Luciano Gallino
Che cosa resta del mito operaio
12 Ottobre 2007
Articoli del 2007
È ancora centrale il lavoro operaio, nel mutare dei rapporti tra fabbrica e territorio. Da la Repubblica del 12 ottobre 2007

Tutte le cose da cui siamo circondati e che usiamo, in una giornata qualunque, sono uscite da una fabbrica. Da lì vengono, si sa, l’auto, il frigorifero e il televisore. Ma da una fabbrica sono usciti pure la tazzina del caffè e il tavolo su cui posa, i vetri della finestra e le piastrelle del bagno, il Dvd che ascoltiamo e la carta su cui è stampato questo articolo, la serratura della porta e la cabina dell’ascensore. Le cose uscite da una fabbrica rendono (quasi sempre) più comoda la vita. Usando un computer portatile, alla luce d’una lampada alogena, nel tepore diffuso da una caldaia a gas, tutt’e tre usciti da una fabbrica, è anche più agevole scrivere che le fabbriche sono ormai in via di estinzione.

La fabbrica è di regola un lungo capannone grigio senza finestre, dove entrano materie prime e pezzi separati i quali, lavorati e assemblati, ne escono poi trasformati in cose pronte per l’uso. La trasformazione è effettuata da macchine, costruite a loro volta in un’altra fabbrica, e dal lavoro umano. Rispetto a trent’anni fa, entro la stessa fabbrica sono oggi più numerose le macchine che compiono da sole varie fasi della trasformazione, spesso integrate fra loro in sistemi flessibili di produzione, oppure metamorfizzate in robot. Per contro è sceso di molto il numero dei lavoratori occupati. Ma se i lavoratori non continuassero a controllare le macchine e a provvedere con la loro attività a riempire i larghi spazi del processo produttivo che restano aperti tra una macchina e la successiva, anche nelle produzioni più automatizzate o robotizzate, dalla fabbrica non uscirebbe niente.

In fabbrica c’è sempre qualcuno che comanda, e altri che sono comandati. Qualcuno provvede a organizzare il lavoro, dividendolo in operazioni semplici e brevi. Vanno compiute in pochi minuti, a volte uno solo, per poi ricominciare. Gli altri eseguono. Dal punto di vista della divisione del lavoro, la fabbrica di oggi resta molto simile a quella di una generazione fa, se non di due. Magari non la chiamano più "organizzazione scientifica del lavoro". Però si tratta pur sempre di lavoro frammentato in mansioni parcellari e ripetitive, che si imparano alla svelta e non richiedono all’individuo che le svolge una qualifica professionale elevata. Alla quale comunque non consentirà mai di arrivare, quel lavoro diviso, nemmeno dopo una vita.

Da altri settori dell’economia, che vanno dall’agrindustria alla ristorazione rapida, dalla grande distribuzione ai call center, gli esperti guardano oggi all’organizzazione del lavoro della fabbrica per comprendere come si fa a estrarre da una persona la massima quantità di lavoro utile in una data unità di tempo. Il loro scopo ideale è quello di trasformare ogni genere di attività umana in una copia del lavoro di fabbrica. Sembra ci stiano riuscendo.

Grazie all’automazione e a altre innovazioni del prodotto e del processo produttivo, in fabbrica molte lavorazioni particolarmente pesanti e nocive ora sono svolte dalle macchine. C’è anche meno rumore. Tuttavia le mansioni che restano affidate a esseri umani sono altrettanto stressanti di quanto lo erano un tempo. In numerosi casi la fatica fisica e nervosa è anzi aumentata. Perché le fabbriche producono oggi "giusto in tempo", che significa alimentare un flusso ininterrotto di materiali e di operazioni lungo tutto il processo. Ed è sempre l’operatore umano che deve badare a che il flusso non si interrompa mai, che le eventuali disfunzioni vengano subito superate, e gli effetti di queste sui tempi come sulla qualità del prodotto prontamente eliminati. Ciò comporta ritmi di lavoro sempre più rapidi per tutti gli addetti alla produzione; drastica riduzione delle pause durante l’orario di lavoro; una tensione continua per evitare che qualcosa vada storto. Forse lo fa in modo diverso da un tempo, ma di sicuro continua a stancare, il lavoro in fabbrica. Così come gli incidenti che avvengono in essa, masse e arnesi grevi di metallo contro corpi umani, continuano a ferire seriamente ogni giorno migliaia di uomini e donne, e a uccidere, industria delle costruzioni a parte, 1200 volte l’anno.

Invece come luogo di incontro, di solidarietà, di rapporti sindacali, di interessi comuni, di amicizia, la fabbrica è cambiata. Tutte le forme di relazioni sociali sono diventate più rade e più fragili. Le attività di gruppo che hanno sempre formato una parte intrinseca della socialità del lavoro risultano difficili. Si stenta perfino, talvolta, a mettere insieme una squadra sportiva. La causa non sono le persone, che avrebbero cambiato atteggiamento o abitudini. Sono piuttosto i contratti di lavoro di breve durata, e l’affidamento a imprese esterne, diverse dall’impresa che controlla la fabbrica, di segmenti sempre più ampi del processo produttivo interno. Ciò impedisce alle persone di imparare a conoscersi, vivendo e lavorando fianco a fianco per periodi abbastanza lunghi. Al presente può succedere che su cento lavoratori in attività entro una fabbrica, in un dato giorno, appena un terzo o un quarto siano dipendenti fissi dell’impresa cui la fabbrica stessa fa capo. Gli altri sono lavoratori che oggi ci sono ma domani, o tra una settimana o un mese, non ci saranno più, o verranno sostituiti da qualche faccia nuova. Per alcuni sarà scaduto il contratto, quale che fosse, da apprendista, interinale, o collaboratore. Ad altri, dipendenti da imprese terze, subentreranno in fabbrica i dipendenti di imprese diverse. La fabbrica, da luogo canonico di permanenze e stabilità, si va trasformando in un luogo di frettoloso passaggio.

In Italia come altrove, le fabbriche non sono mai state altrettanto numerose, e non hanno mai prodotto una così massiccia quantità di merci. Per convincersene basta guardare dal finestrino, dell’auto o del treno. Strade e ferrovie che si dipartono dalle grandi città, e da tante minori, appaiono costellate per decine di chilometri da file di fabbriche. Di solito uno non arriva a vederci dentro, a quegli scatoloni grigi, ma di sicuro all’interno c’è qualcuno che lavora. In certi posti lavorano poche decine di persone, in altri centinaia o migliaia. In totale, pur contando solamente i lavoratori dipendenti dell’industria in senso stretto, gli abitanti giornalieri e notturni delle fabbriche italiane sono tuttora quasi quattro milioni e mezzo.

Mentre sembra che i lavoratori di fabbrica nessuno riesca a vederli, sono invece ben visibili a tutti le colonne di tir su autostrade e tangenziali, i treni merci lunghi un chilometro che rombano a due metri da noi mentre sulla banchina aspettiamo l’eurocity, le decine di migliaia di container che riempiono i porti e le piattaforme intermodali. È vero che parecchie di quelle merci provengono dall’estero. Ma non meno voluminose sono le nostre merci che viaggiano su tir, treni e navi dirette verso destinazioni straniere. Dopo essere uscite da una fabbrica. Dalla quale esce anche una domanda ininterrotta di servizi. Ricerca, informatica, reti di comunicazione, logistica, manutenzione, consulenze varie, amministrazione, formazione e altro: una bella quota, insomma, di quel che vien denominato terziario. Chiudete o delocalizzate la fabbrica, e la relativa quota di terziario scende a zero. È uno dei debiti poco noti che economia e società hanno verso la fabbrica e quelli che ci lavorano.

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