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Andrea Manzella
Che cosa chiediamo all’Europa
7 Giugno 2009
Articoli del 2009
Alcune ottime ragioni per andare a votare. Su la Repubblica, 7 giugno 2009 (m.p.g.)

Ultime ore per votare alle europee. Se c’è un paese dell’Unione dove è insensato non andare a votare, questo è proprio il nostro. Per due buone ragioni nazionali.

La prima ragione è che l’Italia - dove è più profonda la recessione e più alto il rischio di crisi sociale - ha più bisogno di un’Unione europea "attiva". Nel cui "insieme" possa trovare sostegno e spinta per la ripresa. Un Parlamento europeo legittimato da una buona partecipazione elettorale è un fattore decisivo per avere appunto una Europa "attiva".

Non è vero che sia un Parlamento senza "governo" di riferimento. Non è vero, formalmente, perché il suo voto è determinante nella scelta del presidente della Commissione europea e dei Commissari e nella loro vita successiva. Ma non è vero, sostanzialmente, perché il suo ruolo conta nella governance dell’Unione. Sia nelle scelte concrete di legislazione (almeno il 75 per cento delle leggi che ci regolano la vita quotidiana sono di origine comunitaria). Sia negli orientamenti del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo (che non possono ignorare, negli equilibri istituzionali dell’Unione, la forza elettorale del suo Parlamento).

È profondamente sbagliato, d’altra parte, pretendere di trovare in un ordinamento sovranazionale le stesse caratteristiche del rapporto fiduciario Parlamento-governo proprie di un tradizionale ordine statuale nazionale.

Se dietro i nostri 72 deputati ci sarà un’alta partecipazione elettorale, avremo fatto perciò una buona cosa. E non perché non conosciamo tutto il male sui parlamenti e sui parlamentari. Ma perché è una cosa che è nel nostro interesse: aumentare, per la nostra parte, la legittimazione elettorale del Parlamento europeo può aiutarci nei prossimi difficili anni. Più conterà il Parlamento, più saranno possibili politiche comuni economiche e sociali. L’ondata di neo-nazionalismo, alla fine, non conviene a nessuno in Europa. Ma certo i più forti possono difendersi meglio da soli.

Poi, naturalmente, c’è la scelta di chi mandare a Bruxelles – Strasburgo. È assai probabile che, dopo queste elezioni, le tradizionali linee di confine, centrodestra-centrosinistra, scoloriranno per far posto nel nuovo Parlamento ad una inquietante frontiera di opposizione tra "unionisti" e "anti-unionisti".

Il rifiuto dei conservatori inglesi di continuare a far parte, dopo vent’anni, del gruppo del Partito popolare, "troppo" europeista, è stato il segnale più grave di una faglia che si allarga. A destra il fronte "anti-unionista", che è qualcosa di più dell’euroscetticismo, si è enormemente esteso. Vi è uno schieramento, con punte xenofobe e neonaziste, intenzionato a sabotare il Parlamento europeo dal di dentro. Più che per il numero, la sua pericolosità è nel rischio di contagio-ricatto verso territori politici contigui, con catastrofiche rincorse demagogiche (l’esempio italiano dei "condizionamenti" leghisti per la legge anti-immigrazione più repressiva d’Europa, è sotto gli occhi di tutti). A sinistra, il fronte "anti-unionista" può contare oltre che sulle tradizionali frange di sinistra radicale spagnole e italiane (se riusciranno a superare lo sbarramento) sul ben più consistente apporto dei trotzkisti francesi di Besancenot e della tedesca Nuova Sinistra, gli uni e l’altra accreditati del 10 per cento del loro elettorato. È una situazione nuova: che potrà dar vita ad inedite alleanze tra i gruppi parlamentari storicamente "unionisti" (popolari, socialisti, liberali). Ma anche a diaspore assembleari ingovernabili.

È curioso che da noi ci si è accalorati, con molto anacronismo e con un certo "cretinismo parlamentare", sulla collocazione futura dei deputati del Partito democratico. Dentro o fuori il Partito socialista europeo (ma sempre e comunque nel campo "unionista"). E nessuno parla, invece, della diversa collocazione degli eletti del Popolo della libertà e di quelli della Lega: che saranno separati da questa nuova – e drammatica – linea di frattura europea.

La seconda ragione nazionale per andare a votare è data dall’intensità dei riflettori che oggi sono puntati implacabilmente su di noi. Il particolare squilibrio di condizioni dell’opposizione nel sistema della comunicazione politica. I propositi annunciati e insistiti di cesarismo antiparlamentare e antigarantista. Lo straordinario passaparola popolare europeo, determinato dalla nostra "storiaccia" di variety istituzionale. Ognuna di queste cose ha acceso tutte le luci della ribalta per un pubblico che non è solo "di casa".

Certo, come tanti hanno detto, le elezioni europee possono, alla fine, valere solo come un "sondaggio in grande". Ma, a differenza di Francia, Germania, Spagna, Regno Unito e di altri ancora, per noi non sarà un sondaggio ad uso interno. Sarà un sondaggio ad uso europeo. Per accertare quale sia, dopo tanto clamore, la vera condizione del sistema politico in un paese fondatore e, spesso, "federatore". Per verificare quale sia la estensione reale del consenso di cui gode un potere di governo per molti versi atipico rispetto alla normalità europea. Per misurare quale sia la consistenza del contro-potere elettorale di opposizione: dopo il collasso di quasi tutte le garanzie comuni al costituzionalismo dell’Unione. Curiosità legittime in un ordinamento sovranazionale che nel "rispetto dello Stato di diritto" trova la sua chiave unificante.

Ecco, sono queste le due buone ragioni italiane per cogliere le ultime ore per andare a votare, per non tirarsi indietro: un po’ nell’interesse nazionale e un po’ per vedere a che punto è la notte.

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