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Jean Daniel
Che cosa c'è dietro quel velo
27 Gennaio 2010
Articoli del 2010
Ricordate, talebani italiani: il burqa è “un indumento che copre integralmente una persona”, non è un foulard. La Repubblica, 27 gennaio 2010

Quella del "burqa" è una questione sulla quale mi pareva che tutto fosse stato già detto, ma che invece suscita nuove e interessanti reazioni: come dar forma al generale desiderio di dissuadere le nostre concittadine dall´uso del velo integrale.

Come tutti sanno, non si tratta del tipo di velo diffuso nel Maghreb per nascondere le chiome, bensì di una sorta di indumento che copre interamente la persona. Chi si traveste in quel modo si muove come un´ombra, assente e misteriosa. Sotto il burqa la donna si sottrae a tutti gli sguardi, e darebbe prova di un´austerità monacale, se non fosse che l´esclusiva delle sue fattezze e del suo volto è riservata all´uomo da lei accettato come suo proprietario.

Non è in discussione il fatto che quel travestimento non sia di buon gusto agli occhi della maggioranza dei cittadini tra i quali queste donne hanno liberamente scelto di vivere; ed è accertato che il burqa non è un obbligo religioso, ma soltanto un´usanza, peraltro condannata dal gran muftì d´Egitto, nonché dalle istituzioni teologiche più autorevoli dell´islam sunnita: su questo punto il professore Abdelwahab Meddeb è stato categorico. Si è invece aperto un dibattito sull´opportunità di promulgare una legge o di limitarsi a una semplice dichiarazione dell´Assemblea nazionale.

Le autorità religiose francesi (cattoliche, protestanti e musulmane) hanno scelto il silenzio, o si sono affrettate a proclamare la propria neutralità, associandosi così alle posizioni di taluni movimenti di sinistra che vedono in ogni tipo di divieto un attacco alla libertà religiosa. Personalmente, anche se penso che la società francese debba esprimere chiaramente la sua condanna, tendo a ritenere controproducente il varo di una legge destinata esclusivamente ad alcune centinaia di donne.

Una tesi certo non priva di acume è quella sostenuta su Le Monde dal filosofo Abdennour Bidar, che è anche autore di interessanti articoli sulla rivista Esprit. A suo parere, il burqa è sintomo di un malessere più profondo: un desiderio personale di esistere, benché espresso «in maniera paradossale, patologica e totalmente contraddittoria». Agli occhi di Abdennour Bidar, le giovani che indossano il burqa non sono poi tanto diverse dai tanti «emarginati volontari, veri e falsi a un tempo» di cui rigurgitano le nostre società. L´autore sottolinea poi lo spaventoso vuoto lasciato dalla scomparsa delle grandi immagini dell´uomo. Ormai i modelli proposti sono solo quelli di attori, sportivi, cantanti o star mediatiche che incitano a privilegiare l´apparenza, il denaro, la bellezza fisica, i consumi. «Come pensare che questi obiettivi derisori, esaltati dalla pubblicità nei modi più ridicoli, possano bastare a dare un senso alla nostra vita?» Non si potrebbe dir meglio. Ma da qui a stabilire un collegamento col burqa, che esprimerebbe «qualcosa come il rimosso della psicologia collettiva attraverso il rifiuto di esibire anche una minima immagine di sé», per poi concludere che l´identità totalmente nascosta dietro il burqa sia «l´identità profonda dell´io moderno, divenuto introvabile», c´è un salto epistemologico non facile da accettare.

Decisamente, questi eminenti intellettuali non riescono ad accontentarsi della semplice realtà. Di fatto, da quanto tempo si è posto il problema del velo – prima di quello del burqa – in un paese come la Francia, che da mezzo secolo ospita un gran numero di musulmani? Da dove è venuto questo desiderio di imporre ovunque i vari tipi di velo, se non dai movimenti sauditi e afgani, il cui primo bersaglio fu il governo algerino, colpevole di aver impedito agli islamisti di insediarsi al potere, annullando il secondo turno di una consultazione elettorale perfettamente libera?

Si è già dimenticato quanto è accaduto per un decennio in Algeria? Quelle vicende hanno preparato l´irruzione delle reti che avrebbero destabilizzato una parte importante del mondo arabo-musulmano, per poi coprirsi di "gloria" con gli attentati dell´11 settembre 2001 a New York. Come non ricordare che da quel momento in poi tanti giovani musulmani hanno affermato la propria solidarietà con la rinascita dell´epopea vendicativa dei fanatici leader di un certo islam?

Può darsi allora che le eredi dei pionieri di quella frenetica crociata vogliano esibire la pura e semplice volontà di chiamarsi fuori da una società di infedeli e miscredenti. Resta comunque il fatto che anche in assenza di qualunque tipo di violenza, quel loro modo di rinchiudersi significa l´opposto di tutto ciò che rimane valido e bello sotto ogni regime, anche se in declino: la voglia di aprirsi, di condividere, di scambiare gli sguardi. Lo slancio verso l´altro. Il problema non è il velo, è il suo significato. Nulla è più bello di un velo che adorna un volto, come nei quadri dei maestri fiamminghi e italiani. Ma c´è un abisso tra le tombe itineranti di quelle sconosciute, e il velo che sottolineava la bellezza di una Benazir Bhutto: lo stesso abisso che separa il segreto delle tenebre dalla generosità della luce.

Traduzione di Elisabetta Horvat

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