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Valentino Sara; Parlato Farolfi
Ceto medio evaporato
4 Giugno 2009
Articoli del 2009
Nell’intervista a De Rita, la crisi del ceto medio e il declino dei partiti di massa. Su il manifesto, 4 giugno 2009 (m.p.g.)

Giuseppe De Rita denuncia la riduzione localistica della politica, priva di una direzione di marcia

Sara Farolfi

Valentino Parlato

«Iniziare a pensare al dopo», ha scritto concludendo, un mese fa, la serie dei Diari della crisi. Ma quando arriva il dopo, professor De Rita?

Il dopo ci sarà da ottobre in poi. Alcuni dicono che il peggio deve ancora arrivare, io invece ho l'impressione che il grosso lo abbiamo superato perché, come ho sempre sostenuto inascoltato, questa era una bolla, la sesta bolla del secolo. Nel 2000 abbiamo avuto la bolla della new economy, balla spaventosa oltre che bolla, poi è arrivata quella dell'immobiliare, del prezzo del petrolio, poi ancora quella delle materie prime. Finita questa, è stata la finanza internazionale a fare la bolla su se stessa. Ora ci aspetta un periodo di assestamento, che sarà tutto di economia reale.

Ha parlato della prima crisi del processo di terziarizzazione. Come e con quali conseguenze?

Il vero problema di questa crisi, se uno la legge in filigrana, è che è la prima vera crisi del terziario italiano, che per trent'anni ha fatto da sacca di compensazione di tutto il casino che succedeva nell'industria. Oggi questo terziario, con tutte le sue sacche di precariato, soffre più dell'industria e le conseguenze rischiano di essere pesanti. E' lì che ci siamo inventati i formatori dei formatori, e risistemare questo mare indistinto in cui abbiamo messo di tutto, con la spada di Damocle del debito pubblico, è difficile e faticoso, oltre che costoso. In più, manca una cultura di relazioni industriali per cui il precario dello spettacolo, i semigiornalisti, o i semiaddetti stampa, da chi sono rappresentati?

Siamo alla prima crisi post flessibilizzazione del mercato, e i nodi vengono al pettine, non crede?

Certo, tutto quello che noi conosciamo del mercato del lavoro fino a Biagi, è tutto giocato sulle relazioni industriali, cioè su una cultura del rapporto e della contrattazione. Per quanto riguarda il terziario invece manca una cultura della regolazione, sia sul piano economico che su quello della cultura e dei soggetti della contrattazione. La crisi della terziarizzazione è anche la crisi della funzione terziaria, così il terziario perde il suo valore epistemologico, la sua legittimità sociale, senza avere peraltro alcuna legittimità di prassi. Perciò il ceto medio si sente privo di legittimità sociale, e mentre i figli del ceto medio sono entrati o vogliono entrare in questa specie di grande precariato terziario, i genitori sono terrorizzati.

Che cos'è questo ceto medio. E' rappresentabile come figura sociale? E quale riflesso politico ha?

Una volta il ceto medio era una classe. Oggi al massimo ci sono distinzioni professionali, ma sono parti corporative e individualistiche. La cetomedizzazione è stata la rottura delle classi in un grande invaso in cui sono entrati tutti, dall'ex operaio all'insegnante di liceo. La stessa idea, coltivata dalla sinistra radicale, che da questo ceto medio sarebbe uscita, in alto, una borghesia imprenditoriale, e in basso, il nuovo sottoproletariato, non è avvenuto. Come la poltiglia e la mucillaggine di cui parlavo l'anno scorso, sono tutti fermi lì a sobbollire in una specie di mar morto in cui l'acqua non entra più ma non va neppure via e quindi si riscalda, evapora. Ed è un'evaporazione anche intellettuale di questo ceto medio, che non ha più istanze di direzione di marcia e che dunque fa proprio il berlusconismo politico in cui ciò che conta è «che tutti devono avere la libertà di essere se stessi». Berlusconi è l'unico che ha saputo rappresentarlo.

E' per questo che i cittadini hanno sempre meno fiducia nella politica nazionale?

La politica nazionale ha un solo dovere, o meglio lo aveva: orientare. Ma oggi chi è che ha un'idea di dove portare il sistema? Non c'è più una direzione di marcia collettiva in cui fare convergere i diversi interessi, l'interesse locale diventa l'unica politica possibile e i partiti nazionali finiscono per avere il fiato corto. Questa riduzione localistica della politica è stata una tragedia ma purtroppo i grandi partiti hanno tentato di rispondere salendo in alto e non scendendo in basso. E così nessuno, eccetto la Lega, sa fare una politica del territorio.

Un ceto medio siffatto mette in crisi il partito di massa stesso, dunque?

La mucillaggine non è altro che degli insiemi vegetali che stanno l'uno accanto all'altro, non si legano e non legandosi non hanno vita, non diventano un «noi».

Nei Diari parla della «fine dell'imborghesimento». E' questa la seconda metamorfosi?

Un cambiamento di certo ci sarà. Un imborghesimento che finisce a sobbollire - nel motto «sii te stesso» - non è che può andare avanti a lungo. La novità che abbiamo notato in questi mesi è la nuova temperanza nei consumi, un meccanismo di piccolo rigore borghese e non è chiaro se sarà un puro fatto di assestamento oppure un modo per costituire una morale, non di classe ma di ceto.

Il microwelfare di cui si preconizza l'avvento è la fine del welfare state per come l'abbiamo conosciuto?

Il welfare «dalla culla alla tomba» ha due problemi. E' costoso e malamente è in grado di rispondere a bisogni che oggi sono diversi. Lo aveva colto anche la sinistra degli anni '70 quando diceva che il bisogno è desiderio. Se oggi pensi che tuo figlio abbia bisogno di studiare l'inglese lo mandi a lezione privata. Lo stesso discorso vale per il lavoro di cura se si ha un anziano a carico, e questo per certi versi è già microwelfare. Il welfare si è progressivamente destrutturato, a partire dagli anni '70 nel rapporto tra bisogni e desideri, nell'entrare cioè di un meccanismo soggettivistico nella logica del bisogno, che una volta era un bisogno oggettivo e istituzionalizzato. Ma se diventa soggettivo, diventa una domanda a cui lo stato non può rispondere e quindi si deve rispondere con il microwelfare. Lo dimostra anche lo sviluppo del terzo settore e del volontariato, che arrivano là dove il comune non riesce.

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