C’era una volta una Regione simbolo del buon governo, dove l’efficacia dell’attività amministrativa si sposava con l’etica dell’operare politico. Eravamo negli anni ’70 e il modello delle amministrazioni “rosse” raccontava al mondo anche di un modo diverso di intendere il governo del territorio. Fra queste un ruolo guida lo assunse la regione Emilia Romagna capace, in quegli anni, di costruire, sulla base di un’ampia condivisione popolare, un sistema di governo che si affidava, nel metodo, ad una ricognizione approfondita del proprio territorio e negli strumenti, alla pianificazione su area vasta: i risultati di rilievo non mancarono, dalla creazione del Parco del Delta del Po, all’elaborazione di uno dei primi e più efficaci piani paesaggistici regionali elaborato in adeguamento alla legge Galasso. Nel 1986 il PTPR dell’Emilia Romagna rappresentò certamente un punto di innovazione e di avanzamento della cultura ambientalista in Italia e come tale fu ampiamente apprezzato, fra gli altri, da Antonio Cederna, anche perchè costituì il risultato concepito, coordinato ed elaborato dalle strutture interne di un'amministrazione pubblica.
Molta acqua è passata sotto i ponti, mano mano che la tensione ideale dei primi anni si allentava, contestualmente il carattere esemplare dell’esperienza emiliano romagnola andava diminuendo. Al pari di altre amministrazioni regionali, gli ultimi lustri hanno sancito una rinuncia sempre più marcata, sul piano politico e su quello amministrativo dalle funzioni di programmazione e pianificazione su area vasta. Progressivamente si è sempre più diffusa la delega di tali funzioni in campo urbanistico a livello provinciale e comunale con tutti i fenomeni di svendita del paesaggio per finalità di cassa economale che questo meccanismo ha comportato. L’ultima legge sul governo del territorio (n.6 del 6 luglio 2009) sancisce di fatto questo passaggio, inglobando, quale naturale corollario, il recepimento a livello regionale, del famigerato piano casa. Intendiamoci, come eddyburg sta documentando, esistono versioni largamente peggiori di tale provvedimento che in talune declinazioni regionali è stato pensato come un vero e proprio condono mascherato, ma a chi ricorda il dibattito culturale e politico che accompagnò l’elaborazione del PPTR, oltre 20 anni fa, appare dolorosamente evidente la rinuncia ad un’operazione di strategia territoriale su area vasta e quindi a ripensare il proprio territorio in termini complessivi non collegati esclusivamente a modelli di sviluppo culturalmente arcaici ed economicamente poco innovativi.
In compenso, gli ultimi mesi della legislatura che si conclude in queste ore sono stati caratterizzati dalla pubblicizzazione di un Piano Territoriale di ben altra natura: il PTR, non piano urbanistico, ma pomposamente definito “come l’atto più rilevante della Regione, la sua visione strategica”, è a tutt’oggi un documento persino imbarazzante sul piano dell’elaborazione politica ed amministrativa: oltre all’immancabile (e stucchevole) panoplia lessicale di termini quali competitività, economia della conoscenza, sviluppo sostenibile e valorizzazione, l’immagine della regione viene definita quasi solo per contrasto, a rimarcare, in perfetto stile leghista, le differenze, soprattutto economiche, in positivo rispetto ad altre aree del paese e l’unico obiettivo che emerge da una cortina fumogena e spesso contradditoria di affermazioni è quello dell’”attrattività territoriale”, bramata nelle sue conseguenze economiche, ma piuttosto vaga nei contenuti .
L’ancora più recente legge sul paesaggio (n.23 del 30 novembre 2009) senza affrontare minimamente il problema dell’adeguamento della pianificazione regionale vigente al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, rappresenta, rispetto agli anni ’80 un deciso arretramento culturale, a partire dalla sciatteria linguistica che la connota e che non riesce a nascondere la totale mancanza di qualsiasi elemento se non proprio prescrittivo, financo definitorio rispetto alle azioni chiaramente identificate dal Codice (in particolare all’art. 143) quali elementi fondanti della copianificazione paesaggistica. A tal punto il testo di legge elude qualsiasi funzione pianificatoria da non prevedere la redazione di alcuna cartografia: torna alla mente il fulminante parallelo di Luigi Piccinato che definiva un piano senza carte come “calligrafia orale”.
Naturalmente questo decisivo abbassamento a livello di qualità normativa, ha ampio riscontro con quello che sta succedendo sul territorio: il fenomeno dello sprawl urbano dilaga così come il degrado complessivo del paesaggio dovuto anche alla costruzione delle tante infrastrutture che attraversano la regione (dall’alta velocità ai passanti autostradali), mentre sono state recentemente riviste anche alcune delle norme cardine sulle quali il PTPR degli anni ’80 aveva cercato di fondare un’inversione di tendenza rispetto al massacro urbanistico che aveva ridotto la costa romagnola, nei decenni precedenti, a un’ininterrotta città lineare di grottesca qualità architettonica, distruggendo per sempre decine e decine di chilometri di dune e pinete. E si moltiplicano i vulnera inferti al contesto monumentale di centri storici fino ad ora studiati e tutelati come in poche altre situazioni italiane e in molti centri, a partire da Bologna, disastrosa appare la situazione del traffico. Certo, c’è di peggio in Italia, il territorio dell’Emilia Romagna non ha conosciuto, se non in piccola parte, fenomeni di devastazione come il Nord-Est o l’abusivismo diffuso che come un cancro dilania vaste aree del Meridione.
Ma il “meno peggio” non è buona politica e, in tempi come questi, la rinuncia a divenire un esempio alternativo di governo del territorio, a sperimentare pratiche di contenimento del consumo di suolo, dello sprawl, di infrastrutture invasive la cui utilità si rivela soprattutto sul piano della speculazione edilizia , ad affrontare in maniera radicale e complessiva il problema della mobilità in una delle regioni più inquinate d’Europa è ammissione di incapacità politica con gravi conseguenze sul piano sociale. L’appiattimento di fatto ad un modello, quello del cemento, come motore principale dello sviluppo economico si è coniugato poi con una sempre maggiore opacità delle decisioni politiche e non ha mancato di produrre degenerazioni pericolosissime se è vero, come purtroppo risulta anche dalle recentissime cronache giudiziarie, che l’Emilia è terreno privilegiato di infiltrazioni camorristiche. I soldi dei Casalesi, insomma, alimentano la speculazione edilizia dei principali centri abitati sulla via Emilia, a partire dalla conurbazione Modena- Reggio Emilia, sulla quale si stanno concentrando gli interessi delle cosche, copiosamente alimentati da liquidità inesauribili.
Tali operazioni speculative, un tempo marginali, sono purtroppo ora avallate, quando non elaborate direttamente, dalle amministrazioni pubbliche comunali sulle quali l’ente regionale non esercita alcuna forma di controllo né a priori, né a posteriori: non siamo più da tempo un’isola felice, ma occorre scuotersi dal torpore in fretta, a partire dal prossimo governo regionale che si insedierà fra qualche settimana, per non diventare qualcosa di molto peggio e perché quell’unità d’Italia che ci apprestiamo a festeggiare, non sia nei fatti soprattutto il frutto di una condivisione di interessi illeciti.
L’articolo costituisce la rielaborazione del testo uscito sul Bollettino Italia Nostra, n. 449, 2009.