Repubblica, 26 settembre 2016 (c.m.c.)
«Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti, o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale ». Le parole cristalline dei Quaderni del carcere di Gramsci (rese attualissime dall’assurda volontà di stravolgere definitivamente il liceo classico) sarebbero una perfetta epigrafe per il Canto della libertà di Sandra Bonsanti: un libro pieno di grazia, animato da una vivissima passione per quella civiltà, e dal desiderio di tramandarla ad una nuova generazione - quella dei nipoti dell’autrice, a cui il libro è dedicato.
L’invenzione è semplice: in una piccola libreria indipendente (che ricorda la meravigliosa Todo Modo di Firenze), un vecchio professore tiene un ciclo di dieci lezioni su “Saffo e la scoperta della libertà nell’antica Grecia”. Così, per dieci capitoli, il filo narrativo intreccia la lettura e il commento dei testi greci (Saffo, ma anche il sesto libro dell’Iliade, Pindaro, Tucidide, il Platone del Fedro e altri ancora) con i ricordi della generazione del professore (quella che frequentava l’università tra il 1943 e il 1945: e giganteggia, tra i maestri, la figura di Concetto Marchesi), e infine con le aspirazioni e gli smarrimenti dei suoi giovani uditori.
Così, tutte le generazioni del Novecento si stagliano, e in qualche modo si misurano, sulla pietra di paragone del pensiero classico: in un esercizio che è una messa in prospettiva e, insieme, una verifica dei valori.
Con l’understatement che segna ogni pagina del libro, Sandra Bonsanti si schermisce: «Ho scritto una favola. Soltanto una favola, e se dovesse capitare tra le mani di uno studioso vero, chiedo venia». Ma il Canto della libertà è importante proprio perché l’autrice non è un’addetta ai lavori: il giorno in cui Saffo e Omero saranno letti solo dai filologi classici, allora saranno morti davvero.
D’altra parte, questa sete di parole e pensieri nati e affinati nella Grecia antica non si traduce in un’attualizzazione ingenua: l’intreccio con le vite e gli studi dei filologi, degli storici e dei poeti moderni (da Pascoli a Quasimodo) ricorda ad ogni passo l’importanza dell’esattezza, esalta il ruolo della ricerca, mostra la densità di una tradizione che è, letteralmente, il passar di mano di un’eredità che ci fa umani, e ci fa cittadini.
Al centro di questa eredità c’è il nodo tra libertà e democrazia: «Quand’è che l’una insidia l’altra?». In molti ammiriamo la forza con cui Sandra Bonsanti ha preso, e prende, la parola nel discorso pubblico italiano per denunciare le infedeltà del potere: ma invano si cercherebbero in questo testo accenni espliciti all’avventurismo berlusconiano, alla renziana democrazia d’investitura o alle ragioni del no alla riforma costituzionale.
Qua si va oltre, alle radici profonde di tutte queste battaglie: radici coltivate in famiglia («Mio padre mi raccontava di aver pubblicato le prime poesie di Quasimodo, del giovane siciliano che gliele gettava quasi al volo dal treno su cui viaggiava verso Milano, alla stazione di Firenze»), cresciute attraverso l’unione con Giovanni Ferrara, «che mi raccontò la vita sua e degli studenti del primo anno di letteratura greca, e che descrisse il vagabondare notturno di quei giovani appena usciti dai giorni della dittatura».
Ecco: era venuto il tempo di restituire tutto questo ai più giovani, e Sandra Bonsanti lo ha fatto - mirabilmente - attraverso una favola. Ma non di quelle che si raccontano per addormentare: al contrario, per tenere gli occhi bene aperti, perché non scenda la notte su una democrazia fragile.