Malfatano e la collina di Tuerredda, comune di Teulada, trasformati in cantiere edile. Un progetto invasivo che arriva dritto dai terribili anni sessanta con un tocco di stile Dallas-dinasty. La solita balla da capitan Fracassa che 150.000 metri cubi porteranno “lavoro” per incanto. Rivive l’antica pars dominicana, quella del padrone, a scapito della comunità di massai. I teuladini condannati a divenire un’indifferenziata manovalanza – un cameriere ogni quaranta posti letto, qualche muratore a scadenza, qualche giardiniere che anziché innaffiare il proprio campo innaffierà i giardini dei prìncipi – e un plotone di disoccupati ai confini del territorio dei nuovi signori delle spiagge e delle campagne vendute. E quando i padroni di Teulada chiederanno, per capriccio e concessione, qualche prodotto locale per la mensa dei ricchi, non ci saranno neanche formaggio, vino, grano per il pane, perché a Teulada non si produrrà più nulla.
Il “modello di sviluppo” che il Sindaco immagina per i suoi cittadini è talmente retrò da costituire una novità. E toglie speranza apprendere che il progetto Malfatano si sia concretizzato, anni fa, con un sindaco che si qualificava progressista. Altro che progresso. Altro che “indotti economici” per tutti. Questo è un modello con il quale si rinuncia al miglioramento sociale, alla qualificazione professionale, all’agricoltura, alla possibilità di operare e vivere secondo le personali capacità, si accettano tassi desolanti di scolarizzazione, si negano apprendimento e conoscenza, uniche forma di ricchezza durevole di una comunità. E si tratta di affari per pochi.
Nessuno immagina che i teuladini debbano rinchiudersi nei “furriadroxius”, fissati in una macchina del tempo. Le donne all’arcolaio, i maschi con la falce nei campi e con le greggi nei pascoli. Ma un’Amministrazione deve provvedere, o tentare di provvedere alla scuola e allo studio, a una possibilità di vita dignitosa, indipendente ed economicamente accettabile, a un lavoro duraturo per i suoi amministrati. Deve immaginare un’economia reale di cui sia responsabile la comunità, non un’economia affidata ad altri, a capitali luccicanti che alimentano se stessi. Non deve consegnare i propri cittadini e la terra su cui cammina e vive ad altri.
E’ inammissibile che il Sindaco di quel paese, impresario edile, propugni una crescita fondata su un uso atroce del mattone che ha fallito ovunque e in certi casi è saltato in aria con fragore. Le comunità che hanno distrutto le proprie prerogative si sono inesorabilmente impoverite. Ancora di più quando gli indigeni hanno “sgombrato” dalla loro incomoda presenza il territorio più bello.
Edilizia e turismo non sono veleni in sé, s’intende. Il veleno è contenuto nell’uso improprio delle due risorse che divengono tossiche se male utilizzate, nella politica microscopica che si allinea con i poteri economici dalle cui tasche cascano resti e rimasugli sui quali noi isolani da mezzo secolo ci avventiamo famelici. Il veleno è nel considerare “inutilizzato” un luogo intatto mentre lasciarlo com’è è il migliore degli “usi” possibile.
Ci rassicura un’idea, una filosofia economica che preveda “anche” il turismo ma conservando il legame con le proprie origini, senza distruggere il territorio e senza l’onta dello “sfratto” a chi lo abita e lo lavora da secoli. Un turismo tutto in mano a chi vive davvero i luoghi e li “risparmia”. Economie agricole aggiornate, lontane dalla retorica del contadino zappatore con la schiena curva. Una comunità operosa che costruisce il futuro sul proprio passato.
La nuova “signoria fondiaria” decisa dal Comune di Teulada ci riporta indietro sino all’economia curtense quando il signore del castello dominava grandi territori e lasciava le briciole ai massai. E proviamo per questo una profonda, dolorosa vergogna.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente anche su la Nuova Sardegna