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Gaetano Lamanna
Catanzaro. Dall’espansione alla manutenzione
23 Marzo 2015
Altre città
Una testimonianza dal Mezzogiorno. I problemi urbanistici di Catanzaro e l’indicazione di soluzioni ragionevoli per una migliore condizione urbana, non solo in un'area di una parte dell'Italia troppo spesso dimenticata

Una testimonianza dal Mezzogiorno. I problemi urbanistici di Catanzaro e l’indicazione di soluzioni ragionevoli per una migliore condizione urbana, non solo in un'area di una parte dell'Italia troppo spesso dimenticata

Nota scritta in occasione di Convegno sul tema “Catanzaro tra passato e presente” organizzato dalla Fondazione Imes e Italia Nostra per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. La hanno tenuto un Convegno su “Catanzaro tra passato e presente” per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. Il convegno è stato un primo momento per mettere in campo proposte alternative a quelle delle forze che guidano l’amministrazione locale e che si muovono su una linea di continuità con gli interessi della speculazione edilizia e della rendita fondiaria.

Da decenni Catanzaro ha sconfinato dalle sue mura. Ha seguito, come molte città, un modello insediativo diffuso che è andato – per quanto la riguarda - nelle più svariate direzioni (Siano, S.Elia, Mater Domini, Gagliano, S.Maria, Cava, e poi, da Cz Lido a Sellia fino a Cropani e Botricello, da Cz Lido a Copanello fino a Montepaone e Soverato). Il continuum urbano di Cz, fatto di residenze, attività commerciali e di servizio, qualche piccola impresa, presenta un aspetto frantumato, sparpagliato, di disordine. Un territorio informe e pieno e di contraddizioni. E con un centro storico che sembra aver smarrito la sua identità dopo lo sventramento dei primi anni sessanta. L’insediamento dell’Università e della Regione a Germaneto hanno creato un nuovo polo urbano che, in assenza di politiche adeguate, rischia di dare un colpo definitivo alla città storica.

L’evoluzione urbana della città è stata, quindi, caratterizzata da un’occupazione a macchia d’olio del suolo. Naturalmente, i governi nazionali e locali hanno dato il loro contributo: con l’abbandono di fatto di qualsiasi idea di pianificazione del territorio, e poi con la politica dei condoni, con continue sanatorie, varianti, cambi di destinazione, opere infrastrutturali e quant’altro. I cambiamenti sono stati affidati a processi apparentemente spontanei, ma in realtà rispondenti a precisi interessi della speculazione e della rendita, e hanno prodotto costi sociali e ambientali molto alti. I confini geografici della città non corrispondono più ai suoi confini amministrativi e richiamano l’urgenza di pensare ai problemi della città con strumenti programmatici di area vasta. Come affrontare altrimenti questioni come la mobilità, i rifiuti e, ancora, la sanità e l’università?

Il mito dell'automobile

Pensiamo, per citare uno dei problemi, all’impatto della motorizzazione privata e al fenomeno del pendolarismo, esploso con lo spostamento massiccio di popolazione dal centro cittadino alle aree periurbane. Ai problemi del traffico si sono date risposte che hanno rappresentato rimedi peggiori del male. Invece di dotarsi di un trasporto pubblico locale degno di questo nome, efficiente e capace di riconnettere un territorio molto vasto, disarticolato e frammentato, si è pensato di costruire tangenziali, sopraelevate, tunnel, che hanno creato ancora più traffico e inquinamento. Le automobili si sono impadronite della città, hanno occupato strade, piazze, marciapiedi, sono causa di incidenti, di stress, di malattie. Hanno infine impoverito la vita di relazione e la vivibilità della città. Tutto ciò è avvenuto nella totale indifferenza dei cittadini, senza reazioni e senza avvertire particolari differenziazioni tra destra e sinistra. D’altra parte, non poteva essere altrimenti. Siamo cresciuti, infatti, nel mito dell’automobile, che fa il paio con un altro mito, quello della casa in proprietà (di cui parlerò più avanti).

L’automobile è considerata corum populi il principale strumento di mobilità, una scelta di libertà. Mito dell’automobile e mito della casa, dunque, sono la cifra caratterizzante dello sviluppo urbano e, direi, dello sviluppo in generale. Uno sviluppo che, da un lato, si basa sul ricambio sempre più veloce di beni e prodotti - l’economia del ricambio, appunto, o anche dell’”usa e getta” (si acquistano beni per rimpiazzare quelli in uso) - e dall’altro lato si basa sul grande spreco di suolo, di risorse, di energia. Si sono costruiti milioni di immobili e realizzate infrastrutture non sempre utili e senza alcun riguardo verso le nostre campagne, verso le montagne, verso le coste, i laghi e i fiumi. E verso il paesaggio. C’è un gran parlare di debito pubblico e di crisi finanziaria, ma si parla poco dell’enorme debito accumulato con la natura per una gestione urbanistica dissennata.

La vicenda di Catanzaro racconta, nella sua emblematicità, la storia urbanistica del Mezzogiorno e di gran parte del nostro paese e impone a tutti una riflessione sulla necessità di mettere in discussione un modello di sviluppo e, in particolare, un modello di espansione edilizia e urbana che ha fatto proliferare periferie degradate e ha distrutto le città per come le abbiamo conosciute anche noi, nati dopo il secondo dopoguerra. Ma l’espansione, come dicevo, è anche la principale responsabile delle ferite inferte al territorio. E’ tra le cause di tanti disastri ambientali (frane, alluvioni, fenomeni pericolosi e irreversibili di inquinamento delle falde acquifere). Le nostre case sono diventate più vulnerabili perché anche normali eventi naturali si abbattono su una situazione compromessa dal cattivo uso che l’uomo ha fatto e fa del suolo e delle risorse naturali. Infine l’espansione ha la principale responsabilità degli innumerevoli scempi a un paesaggio tanto straordinario da meritarci l’appellativo di “Bel Paese”. Nella logica espansiva, infatti, il paesaggio è res nullius, non un bene da salvaguardare, ma cosa di nessuno, da poter mortificare e persino annullare.

Se, dunque, negli anni settanta e ottanta, e in modo sempre più accelerato negli anni novanta, siamo passati dalla città compatta alla città estesa, che resta il modello urbano dominante, il tema ora è invertire la rotta. La sfida è passare dall’espansione alla manutenzione urbana. La stessa rigenerazione, come si dice, va inserita dentro un’azione paziente e più complessiva di manutenzione e di risanamento del territorio. Qualcosa di diverso - ma non per forza divergente - del rammendo o ricucitura urbana di cui parla Renzo Piano. Solo questo passaggio, tra l’altro, rende possibile avviare un’azione per il risanamento e la tutela del territorio e del paesaggio. Passare dall’espansione alla manutenzione presuppone leggi regionali, piani regolatori, piani casa, piani operativi coerenti con questo obiettivo. Il contrario di quanto avviene oggi. Infatti tutti concordano nel mettere uno stop o un freno al consumo di suolo, salvo poi mettere in atto comportamenti, a livello istituzionale, che sacrificano l’interesse generale sull’altare degli interessi di parte. Il fatto è che i cosiddetti “diritti edificatori” sono considerati intoccabili e persino gli abusi edilizi sono ancora tollerati da chi dovrebbe vigilare.

Nonostante le buone intenzioni e le belle parole è prevalente l’idea secondo cui tutto il territorio è urbanizzabile, negoziabile, edificabile. La rendita immobiliare e urbana si nutre di questa convinzione, che è l’esatto opposto di un’idea di programmazione. Così, grazie all’urbanistica “contrattata” tra amministrazioni locali e proprietari dei suoli (e costruttori) le aree urbane sono cresciute mediamente del 300%. Dal 2000 ad oggi sono stati cementificati circa tre milioni di ettari di terreno agricolo. Si sono realizzati milioni di nuovi alloggi, migliaia di super/ipermercati, decine di migliaia di nuovi km di strade. E’ stata l’apoteosi del cemento e dell’asfalto. Si è rinunciato a riconvertire spazi urbani inutilizzati o degradati, a intervenire prioritariamente sul patrimonio edilizio esistente, che dovrebbe essere recuperato e riqualificato – specialmente quello risalente a più di cinquant’anni, che rappresenta il 50% del totale -.

Il mito della casa

Contemporaneamente l’espansione urbana ha creato gravi distorsioni sul piano economico e sociale. Pensiamo al rapporto tra espansione e casa. L’espansione si è alimentata del mito della casa in proprietà, magari della villetta fuori le mura come indice di benessere, segno di un nuovo status raggiunto. E il mito della casa in proprietà è stato un grande incentivo all’espansione. Milioni di giovani coppie sono state indotte ad acquistare un appartamento impegnando, per 20-30 anni, metà del reddito familiare. Una scelta irrazionale, spesso avulsa da ogni serio ragionamento sul proprio futuro, specie in una situazione dominata da un percorso di vita e di lavoro molto accidentato. Molte giovani coppie hanno acquistato casa al di fuori di una obiettiva considerazione sul lavoro, che è sempre più mobile, e senza una valutazione sulle conseguenze che l’investimento sulla casa avrebbe avuto sugli altri consumi o, magari, sulla impossibilità di investire in direzioni più utili come, ad esempio, la pensione integrativa. Tutte cose sacrificate al mito della casa in proprietà.

Non voglio qui entrare nel merito della questione abitativa in Italia e dell’assenza di un mercato dell’affitto degno di questo nome. Voglio soltanto ricordare che l’espansione edilizia e urbana è stata funzionale a un’idea superata dell’abitare, non più adatta ai tempi moderni, ha finito sostanzialmente con l’ingrassare la rendita fondiaria e immobiliare. Non è un caso che il livello della rendita annua oggi in Italia si aggira intorno ai 400 miliardi di euro, cioè è quasi pari all’ammontare complessivo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. E nel sistema bancario l’ammontare dei mutui da estinguere è di circa 350 miliardi, con gravi sofferenze per milioni di famiglie – soprattutto quelle che hanno comprato negli ultimi dieci/quindici anni - che si sono indebitate per inseguire il sogno della casa, ma ora spesso non ce la fanno a onorare le scadenze. Il tutto, com’è evidente, è stato un colossale trasferimento di denaro dal lavoro alla rendita. Soldi transitati dalle tasche dai redditi medi o medio-bassi ai redditi alti. Qui sta anche l’origine di tante e nuove diseguaglianze, ingiustizie, iniquità fiscali.

Abbiamo parlato dell’espansione e dei suoi effetti nefasti. Ma paradossalmente anche i processi di rigenerazione urbana possono diventare ulteriori regali alla rendita ed essere fonte di distorsioni se la progettazione degli interventi non è agganciata ad una corretta considerazione del contesto sociale e se prescinde dalle condizioni abitative o non tiene conto delle esigenze reali del territorio. E’ sempre presente infatti il rischio che la rigenerazione comporti la gentrification ovvero la sostituzione dei vecchi residenti con residenti più facoltosi. A parte alcuni esempi positivi, concentrati soprattutto nei quartieri pubblici (quelli delle case popolari), la rigenerazione produce effetti non sempre desiderabili in conseguenza della crescita dei prezzi immobiliari. A trarne vantaggio sono i ricchi, che così beneficiano anche degli investimenti pubblici, mentre gli altri, il più delle volte, devono abbandonare il campo.

Dal valore di scambioal valore d'uso

Quindi non basta soltanto un cambio di paradigma dall’espansione alla manutenzione. Il punto è spostare il baricentro dal “valore di scambio” al “valore d’uso”. Dalla mera ricerca del profitto, come si diceva una volta, a una maggiore attenzione verso gli interessi della collettività, a cominciare dai residenti e delle fasce sociali più deboli. La politica di manutenzione va sostenuta con forte determinazione, con provvedimenti urbanistici efficaci, con misure fiscali adeguate. Altrimenti è sempre la spinta del mercato a prevalere, in sostanza la spinta di chi ritiene più conveniente continuare a costruire ex novo. Il massimo che la lobby dei costruttori è disposta a cedere è la rottamazione/ricostruzione degli edifici più vecchi o fatiscenti – che in alcuni casi è pure necessaria – ma non è comprensiva né esaustiva delle politiche di manutenzione e rigenerazione urbana per come le intendiamo noi. Passare dal valore di scambio al valore d’uso negli interventi urbani significa, ad esempio, incorporare le nuove domande abitative nei processi di trasformazione; significa che i processi di rigenerazione non seguano solo la logica della “valorizzazione”; significa utilizzare e riqualificare gli spazi disponibili tenendo conto dei bisogni sociali effettivi. Significa migliorare i servizi. Tutto ciò è possibile solo con un prelievo sulla rendita urbana. Spostare il baricentro sul valore d’uso si può a condizione di restituire alla collettività, ai cittadini, una parte degli enormi guadagni di cui hanno beneficiato e ancora beneficiano i proprietari fondiari, i costruttori, le banche. Ci vuole una vera riforma fiscale, ma ancora non sappiamo se quella annunciata dell’attuale governo conterrà misure di equità, capaci di ridimensionare il peso e il ruolo della rendita finanziaria e immobiliare in Italia.

Un uso sapiente della leva fiscale potrebbe, invece, rimettere in sesto le dissestate finanze locali e consentire di trovare i finanziamenti per intervanti innovativi:

1. Con l’istituzione di un’imposta in grado di intercettare le plusvalenze immobiliari, il capital gain derivante dagli interventi di rigenerazione e, più in generale, dai programmi di riqualificazione urbana. Il Comune potrebbe così trovare le risorse da riutilizzare in un’opera continua di manutenzione, che non può essere una una tantum.
2. Ripristinando l’Imu sulla prima casa per le famiglie più facoltose, quelle che superano i sessanta – settanta mila euro.
3. Estendendo gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni edilizie anche alla messa in sicurezza degli edifici contro il rischio sismico o altre calamità naturali.

Naturalmente occorre sapere utilizzare bene – e senza dispersioni – anche i fondi europei a disposizione.

Per concludere, i processi di trasformazione urbana - e quelli di riqualificazione in particolare – hanno una stretta correlazione con i processi economici e hanno un impatto diretto sull’assetto sociale, sui rapporti di forza, sui nuovi equilibri che si determinano sul territorio. In una parola possono essere un fattore di rafforzamento della rendita urbana o diventare un fattore si sviluppo sostenibile. Dipende dalla capacità delle forze in campo.

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