«Il multiculturalismo e i suoi critici, ». il manifesto, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)
Ne Il multiculturalismo e i suoi critici (Nessun Dogma, pp. 94 p., 8,50 euro) lo scrittore e conduttore radiofonico britannico di origini indiane Kenan Malik affronta a viso aperto probabilmente «il tema» della sociologia contemporanea: come far fronte alle sfide di una società multietnica e multiculturale che, tra reflussi identitari neonazisti e criticità estremiste, si sta facendo largo nello spazio pubblico del Vecchio continente.
La buona notizia è che il saggio di Malik non contiene la ricetta per la panacea dei mali della modernità, preferendo alla presunzione dell’«ora ve lo spiego io» l’umiltà della messa in discussione di ogni preconcetto sul tema, anche quelli apparentemente insospettabili.
L’oggetto dell'analisi è il concetto stesso di multiculturalismo, affrontato nei primi capitoli col rigore millimetrico dell’accademico che, in un preambolo fondamentale per seguire il resto del saggio, cerca di fissare un significato neutrale e condiviso del termine stesso rifacendosi alle tenzoni filosofiche degli ultimi tre secoli. Lo fa spaziando dall’illuminismo ateo fino al romanticismo più «orientalista», facendo emergere le incrinature del pensiero che hanno dato vita alle due correnti antitetiche dei giorni nostri: quelli dello «scontro di civiltà» e quelli dell’«accoglienza e difesa delle peculiarità culturali».
La critica dei primi, che in Italia trovarono nell’ultima Oriana Fallaci il proprio portavoce più scellerato, si aggiunge agli sforzi di tutti quegli intellettuali progressisti contemporanei impegnati nel contrastare il ripiegamento identitario di una società stretta tra la «paura dell’altro» e una crisi socioeconomica dalla quale si fatica a intravedere una via d’uscita. Nulla di rivoluzionario, ma apprezzato promemoria.
Ma è la critica dei secondi che fa di questo saggio una lettura imprescindibile per chi ha a cuore il futuro dell’Europa, spingendosi in un’analisi impietosa di tutti gli errori madornali commessi in un passato recentissimo da chi, in ottima fede, ha provato a tutelare e difendere chi ha deciso di migrare in Europa. Un eccesso di zelo mal calibrato che, rileva Malik, ha dato vita a delle difese d’ufficio francamente imbarazzanti, come nel caso delle vignette blasfeme in Danimarca qualche anno fa.
Malik, dopo aver ripercorso la cronologia degli eventi ed evidenziato come «il caso» sia stato fatto esplodere dai media e non, come vorrebbe la vulgata comune, da folle di musulmani indignati, racconta: «il parlamentare danese Naser Khader, che è musulmano sebbene non osservante, racconta di una conversazione avuta con Toger Seidenfaden, direttore di Politiken, un giornale di sinistra molto critico verso le vignette. “Mi disse che le vignette offendevano tutti i musulmani”, ricorda Khader, “gli dissi che non ero offeso. Lui rispose: ‘Ma lei non è un vero musulmano’”. Agli occhi dei progressisti, in altre parole, essere un vero musulmano significa trovare le vignette offensive».
Gli incasellamenti automatici di comunità eterogenee secondo convenzioni unilaterali – pakistani=musulmani osservanti, ad esempio – hanno contribuito a fare il gioco delle destre, combattendo su un terreno scivoloso come quello della «civiltà» tra chi vuole difendere la propria e chi vuole tutelare quella altrui. Senza notare che «civiltà» e «cultura» sono concetti liquidi, che si modellano in base alle esperienze di vita vissuta, e che variano di generazione in generazione. Nei casi di Regno Unito e in Germania, infatti, «negli anni Sessanta e Settanta gli immigrati musulmani non smaniavano per manifestare le loro differenze ma, piuttosto, esigevano di non essere trattati in maniera differente.
Solo successivamente i musulmani, a partire da una generazione che ironicamente era molto più integrata di quella dei genitori, hanno iniziato ad affermare la propria peculiarità culturale. Questo è il paradosso dell’immigrazione e dell’integrazione con cui pochi intellettuali o politici sono disposti a confrontarsi o anche solo ad ammettere».
Un paradosso figlio, anche, di politiche per l’integrazione raffazzonate, stilate su preconcetti culturali in cui le comunità in arrivo vengono appiattite su caratteristiche fenotipiche appiccicate in fretta e furia dai legislatori su gruppi di persone che, spesso, hanno in comune solo la nazionalità sul passaporto. Al posto di una strategia per l’integrazione omnicomprensiva, i legislatori hanno preferito muoversi su linee di demarcazione etniche, creando di conseguenza conflitti tra le diverse comunità per le risorse da allocare, poiché «le persone si mobilitano in base a come gli sembra di poter ottenere risorse per affrontare questioni che ritengono importanti».
Secondo Malik, quindi, la sfida del multiculturalismo può essere vinta solo respingendo la paura in entrambe le sue manifestazioni uguali e contrarie: quella dell’«altro» e quella che impone di «monitorare la diversità per minimizzare gli scontri, i conflitti e le frizioni che porta subito dopo, che tutto debba essere graziosamente incasellato in nicchie di culture, etnie e fedi, che il disordine sia ripulito e ordinato».
Considerando il disordine come «materia prima dell’attivismo» e «base concreta per il rinnovamento sociale», Malik ci esorta a spogliarci dei preconcetti multiculturalistici all’apparenza più virtuosi e ad affrontare i cambiamenti inevitabili in corso nella nostra società – nostra di «tutti» – mettendo in discussione in primis la nostra presunzione, mal riposta, di essere dalla parte giusta della barricata.