Il centro Studi ASSET, un’associazione di professionisti, studiosi, dirigenti pubblici e privati, sindacalisti e politici, ha chiamato gli amministratori di Roma e Lazio, urbanisti e imprenditori, dirigenti ed esperti di finanza, insieme ai sindacati e ai movimenti di lotta per la casa, per fare il punto sulla politica abitativa a fronte dell’emergenza dei senza tetto, degli sfrattati e di quanti perdono la casa per il costo insostenibile dei mutui.
I movimenti di lotta per la casa si scontrano da anni con il muro di gomma delle amministrazioni e delle forze politiche che hanno mostrato di essere più sensibili alle ragioni della rendita che a quelle del diritto all’abitare.
Il tema della politica abitativa emerge, di volta in volta, come questione di ordine pubblico, a fronte delle occupazioni di palazzi disabitati e di immobili inutilizzati, o come denuncia inascoltata quando le città grandi, e Roma per prima, approvano programmi e progetti per milioni di metri cubi senza prevedere la risposta alla drammatica mancanza di alloggi di edilizia sociale.
Il soddisfacimento del diritto alla casa, in quanto diritto primario, non può essere subordinato, come ormai appare naturale, alla realizzazione di rendite edilizie e finanziarie; deve essere un compito dello Stato.
Dal ’94, con la liquidazione della Gescal, che serviva a finanziare le case per i lavoratori, lo Stato non ha più stanziato fondi per l’Edilizia Residenziale Pubblica. Le case popolari, intanto diminuiscono, per la politica di dismissioni e di cartolarizzazioni, mentre la domanda aumenta, anche alimentata dai nuovi cittadini immigrati, dalla crescita delle famiglie monoparentali e degli studenti fuorisede.
Le Regioni ed i Comuni, al pari delle Stato, hanno guardato all’edilizia privata e alle opere pubbliche auspicando e illudendo che il mercato privato potesse risposte alla domanda di case per le fasce di reddito basso o, addirittura, senza reddito. L’esperienza dice che anche i programmi sostenuti da finanziamenti pubblici, destinati a realizzare alloggi a canone convenzionato, sono stati pochissimi, assolutamente insufficienti e, in ogni caso, accessibili a fasce di cittadini a reddito medio-alto. Le “case popolari” non ci sono mentre aumentano gli sfratti, si innalzano i canoni a livelli speculativi, i patrimoni dei Comuni vengono ceduti a prezzi stracciati con la motivazione ipocrita di fare cassa per finanziare l’edilizia sociale; e le cartolarizzazioni del patrimonio degli Enti hanno costretto moltissime famiglie a lasciare la casa non potendo affrontare l’onere del mutuo o dell’affitto ricalcolato ai valori di mercato.
La cattiva gestione degli Enti per la edilizia sociale, ancorché effettiva e radicata da decenni in molti casi, non è stata combattuta e, anzi, per un verso continua ad essere considerata strumento di consenso politico e, per altro verso, è divenuta l’alibi per affidare ai privati e al mercato la soluzione del problema; e i privati hanno priorità e fini diversi dal soddisfacimento della domanda sociale che non ha la forza economica di accedere al mercato.
Il governo Prodi, per la prima volta dopo 13 anni, nella Finanziaria 2007, aveva finanziato con 550 milioni di Euro, un programma di Edilizia Residenziale Pubblica; intervento limitato, nella quantità e nella qualità, ma poteva costituire la partenza. Il governo Berlusconi, nella Finanziaria 2008, ha cancellato quel finanziamento e lo ha assorbito in un generico Piano-casa ( art. 11 della legge 6 agosto 2008 ) la cui definizione è demandata ad un decreto delegato che deve dare il via ad un sistema di fondi immobiliari a cui lo Stato partecipa in modo consistente. A questo fine si ipotizza di utilizzare anche la Cassa Depositi e Prestiti; anche se non sembra ancora definito il rapporto con gli Enti Locali, debitori della stessa Cassa, che potrebbero compensare il loro debito con la cessione del patrimonio immobiliare abitativo.
Alla luce di questi annunci ed in attesa del decreto delegato, in fase di difficile definizione per i conflitti di competenza che si aprono con le Regioni,, gli operatori privati e le cooperative del settore, con propri progetti e sulla base di una intesa comune, si propongono come soggetti attuatori del piano. “Lo Stato ci dia i soldi, anche attraverso un fondo promosso e gestito dalle banche, i Comuni ci diano le aree edificabili, a fare l’affare ci pensiamo noi”. Questa appare, in tutta evidenza, l’intesa tra i cosiddetti soggetti attuatori. In questo modo, se i fondi attendono un ritorno economico ai livelli attuali del mercato e se i Comuni operano ulteriore occupazione di suolo agricolo, le case che si potrebbero eventualmente costruire sarebbero solo accessibili ai redditi medio-alti; il problema sociale non verrebbe neppure scalfito. D’altra parte, i fondi immobiliari richiedono l’impegno e l’apporto del sistema bancario e finanziario e quello di soggetti attuatori e gestori dei programmi abitativi eventualmente realizzati; il che innalza ulteriormente il livello dei canoni praticabili alle condizioni di mercato.
Il piano casa, tanto sbandierato, appare essere un clamoroso annuncio propagandistico di difficile realizzazione e, laddove realizzato, una leva per speculazioni finanziarie e fondiarie.
Le Regioni denunciano, a buon diritto vista la pessima assegnazione di funzioni operata con la riforma del Titolo V della Costituzione, di essere espropriate. Le procedure previste per l’avvio dei programmi, ancorché inadeguati, sono talmente farraginose che difficilmente possono concretizzarsi e, in ogni caso, non in tempi compatibili con l’emergenza denunciata.
È significativo che il traguardo temporale del Piano Casa, anche nelle previsioni aggiornate del Comune di Roma, sia slittato al 2016 mentre l’emergenza attuale, in tutte le sue fasce, ha raggiunto li livello di 40/45 mila nuclei. Le più ottimistiche previsioni del Campidoglio si attestano a poche migliaia di unità abitative destinate all’affitto a canone convenzionato e ad altre migliaia destinate all’acquisto agevolato. Per l’Edilizia Residenziale Pubblica, quella sociale da destinare a chi non ha redditi per varcare la soglia del mercato, ancorché convenzionato o agevolato, c’è l’immaginifico percorso ipotizzato nella famosa delibera programmatica N. 110/05.
L’unico percorso che si profila spedito e sgombro di ostacoli è la possibilità di derogare ai Piani regolatori e attuare varianti urbanistiche con accordi di programma; a conferma che la valorizzazione della rendita fondiaria e finanziaria costituisce il vero obiettivo di cui il piano-casa è il pretesto.
L’unico piano per le case popolari che, nel bene e nel male, ha funzionato nel nostro paese, e che prende il nome da Amintore Fanfani, superava il vincolo del mercato in quanto a totale onere dello Stato e, seppure ha costituito un fattore non secondario di espansione della rendita fondiaria in ragione della valorizzazione di aree agricole, si poneva, purtuttavia, come termine calmieratore del mercato edilizio. E di nuovo, oggi, dopo la prova provata che il mercato non produce la soluzione dei problemi sociali ma anzi li aggrava, la questione è proprio quella di dare come potere pubblico le risposte che il mercato non è in grado di dare. Si tratta di assumere con intelligenza e responsabilità che ci sono beni e diritti che vanno tenuti fuori dal recinto della produzione mercantile e sottratti alla speculazione.
La conferenza è centrata su Roma perché la capitale è emblematica come realtà dell’emergenza-casa, perché ha un Piano Regolatore nuovo che non prevede l’ERP, perché ha un patrimonio immobiliare sfitto superiore al fabbisogno sociale, perché la nuova Amministrazione, in questo in continuità con la vecchia, ha emanato un bando per acquisire altre centinaia di ettari di “agro romano” da cementificare, tralasciando sostanzialmente tutte le aree trasformabili del PRG che contiene una previsione di oltre 70 milioni di metri cubi di edificazioni su aree pari a 15.000 ettari sottratti all’agricoltura Roma rappresenta la summa delle contraddizioni e, in quanto le evidenzia, rappresenta il quadro della condizione del paese e delle grandi città in particolare.
Il Centro Studi ASSET, per l’attenzione e la critica esercitata in questi anni sulle politiche urbanistiche e abitative, ha dato incarico a me, perché già assessore regionale di Rifondazione Comunista all’urbanistica e casa dal ’95 al 2000, di coordinare la Conferenza. Con questa iniziativa, quindi attraverso ASSET, riprendo un impegno anche operativo nella battaglia politica per i diritti delle fasce deboli e dei ceti popolari e per la tutela del territorio gravemente compromesso dalle politiche liberiste e speculative che si sono svolte in questi anni e che ancora incombono.
Questa conferenza intende costituire un contributo al confronto tra i soggetti chiamati a dare le risposte che servono alla città e alla domanda sociale impegnando le istituzioni in primo luogo. Le imprese, nella misura in cui entrassero nella logica di compensare il proprio utile in un rapporto di partenariato con il pubblico per il soddisfacimento della domanda delle fasce medio basse, potrebbero contribuire a produrre la svolta nella urbanistica romana, dal “piano dell’offerta” al “piano che serve”. Il movimento cooperativo, che ha rappresentato uno strumento forte per la politica abitativa, è chiamato a recuperare i valori della mutualità da cui ha tratto origine, per contribuire a dare la casa a chi non può accedere al mercato.
Per me, per noi di ASSET, questa è anche la occasione per richiamare la sinistra che oggi è fuori dal Parlamento ad alzare lo sguardo oltre la gestione delle proprie questioni interne e la verifica delle proprie identità; e misurarsi con le questioni sociali che costituiscono, insieme, la ragione, lo strumento e l’obiettivo della ragion d’essere di qualunque forza che voglia intendere la politica come “ scienza della trasformazione” e non come opportunità per la propria legittimazione autoreferenziale.