Ci sono l’Italia della pellecchiella, un’albicocca che matura sui ciglioni del Monte Somma, accanto al Vesuvio, e l’Italia della vite maritata, che nel casertano si arrampica su un nodoso fusto di pioppo. Per la prima volta vengono censiti in un catalogo i paesaggi rurali che da secoli si mantengono sufficientemente integri e che, nella loro varietà, sono i più rappresentativi dell’identità multipla, tanto ricca quanto minacciata, della nostra penisola. Sono centotrentasei. Dai Quadri di Fagagna e dalle colline moreniche del Friuli agli orti e ai castagneti terrazzati di Liguria fino al bosco della Ficuzza fra Corleone e Monreale, dalla risara delle Abbadesse, pochi chilometri fuori Vicenza, passando per il parco della Moscheta in Toscana e arrivando agli altipiani di Castelluccio a Norcia.
Il Catalogo del paesaggio rurale storico italiano è il frutto di un lavoro compiuto da una settantina fra i massimi esperti di colture agricole, ma anche di storia e di discipline territoriali (Piero Bevilacqua, Diego Moreno, Giuseppe Barbera, Saverio Russo, Antonio Di Gennaro, Franco Cazzola, Lionella Scazzosi, Tiziano Tempesta, Massimo Quaini, Alberto Magnaghi, Paolo Baldeschi, Claudio Greppi). Il coordinatore è Mauro Agnoletti, che insegna alla facoltà di Agraria di Firenze. L’iniziativa è promossa dalla Direzione generale Sviluppo rurale del ministero dell’Agricoltura. Ogni paesaggio agricolo, forestale o pastorale ha la sua scheda (valori estetici, di biodiversità, economici, stato di conservazione, assetti geomorfologici e di colture). E di ognuno si racconta la vulnerabilità.
A poche centinaia di metri dalla risara delle Abbadesse, per esempio, si aprono gli sconquassi del cantiere dell’A 31 Valdastico, un’autostrada che attraversa quella parte di Veneto compresa fra i Monti Berici e i Colli Euganei, e distesa lungo pianure e valli parzialmente intonse, un paesaggio mosso dalle colline e attraversato da filari di gelso e dalle rogge, i corsi d’acqua che, per volontà della Serenissima, irrigavano i campi. Ma in tempi di "piano casa" e di fervore cementizio, fa impressione sentire che la multiforme ricchezza del paesaggio rurale italiano è minacciata certo dall’espansione urbana, ma anche - e anzi soprattutto - dalla sua "banalizzazione", da quel velo di uniformità che si posa su di essa a causa dell’abbandono di molte colture (le estensioni coltivate sono passate da 23 milioni di ettari degli anni Trenta ai 13 milioni attuali). O anche perché si diffondono incontrollati i boschi (nei primi decenni del Novecento la loro superficie era di circa 3 milioni e mezzo di ettari, oggi occupano 10 milioni di ettari). O, infine, come conseguenza di concimi chimici e agricoltura industriale, che fanno scomparire paesaggi tradizionali ritenuti di ostacolo alle produzioni intensive: e così, laddove c’erano campi promiscui con vegetazione e colture diverse, ora si espandono monocolture: tutto mais, tutto girasole, tutto vite, tutto ulivi.
Un esempio? La Toscana. Fino a tutto l’Ottocento, racconta Agnoletti, in un’area di circa mille ettari si potevano contare almeno 24 tipi di seminativi arborati, 25 tipi fra pascoli e prati, 6 tipi di boschi, per un totale di 65 usi diversi del suolo organizzati in circa 600 "tessere" di un ricchissimo mosaico paesaggistico. Ora su quella stessa estensione di usi se ne contano diciotto.
Sono l’abbandono, spiega Agnoletti, e la troppa natura alcuni dei fattori che minacciano i paesaggi rurali italiani, che invece hanno come elemento tipico la manipolazione dell’uomo, il quale nei secoli ha creato, regione per regione, luogo per luogo, assetti diversi. «Chi viene in Italia - dice - non è richiamato dalla naturalità del paesaggio, altrimenti se ne andrebbe in Amazzonia o sul Grand Canyon».
Nel catalogo sfilano pascoli arborati e orti periurbani, limonaie e filari di gelso. «È un catalogo - afferma Marco Magnifico, direttore generale del Fai (Fondo ambiente italiano) - che documenta anche come in Italia l’uomo abbia integrato i paesaggi, ma senza occuparli e stravolgerli». Ma Agnoletti osserva: «Nel Nord sono ormai scarse le aree estese che conservano i caratteri tradizionali del paesaggio rurale. La montagna alpina presenta spesso zone con pascoli e terrazzi a vigneto, come in Valtellina o in Trentino. Sopravvivono le foreste cinquecentesche che i veneziani usavano per la costruzione delle navi. La pianura padana, però, ha perso gran parte del paesaggio storico: troviamo tracce di fontanili, marcite, cascine e risaie, ma con pochissime alberature, un tempo invece estesissime». Delle regioni centrali il catalogo sottolinea la permanenza dei castagneti da frutto in Toscana, «vecchi anche trecento, quattrocento anni», oppure le alberature nelle Marche, i tracciati della transumanza in Abruzzo. «Al Sud, poi, la dotazione è molto più ricca: i mandorleti terrazzati del Gargano, i pistacchieti di Bronte, le viti maritate dell’aversano, una coltura vecchia anche duemila anni, citata da Columella, Varrone e Plinio, o ancora il paesaggio agrario della Valle dei Templi di Agrigento».
Molti dei centotrentasei paesaggi hanno grandi attrattive per un turismo selezionato, ma in costante crescita. «Nelle regioni meridionali - ricorda Agnoletti – l’offerta agrituristica è cresciuta negli ultimi anni dell’ottanta per cento». Ma è fondamentale che quei paesaggi restino vivi, insiste il professore, che chi li abita non sia costretto ad abbandonarli e che si incentivino le produzioni di qualità: «Il rapporto fra il buon cibo, il buon vino e un territorio ben conservato è un valore che il nostro paese sfrutta ancora poco, a differenza di altri. Ci siamo molto concentrati sui prodotti, poco sui paesaggi che li esprimono. Eppure gli esperti di marketing sanno che è indispensabile costruire "una storia" per vendere bene un formaggio o un olio: i nostri paesaggi sono ricchissimi di queste "storie"».
Non c’è solo la semplificazione dei paesaggi a mettere a repentaglio la multiforme varietà dell’Italia rurale. Le città si espandono, dilaga la cosiddetta "città diffusa", quella delle villette che potrebbero ampliarsi del 20 per cento o del 30-35 se abbattute e ricostruite anche in deroga a tutte le norme urbanistiche. E gli spazi rurali periurbani sono i primi a soccombere. «Il cosiddetto "piano casa" è rischiosissimo», insiste Magnifico del Fai. «Quasi il nove per cento di tutta la superficie agricola italiana si trova intorno a grandi aree urbane, fra le quali le più importanti sono Milano o Napoli», calcola Agnoletti. I territori dell’agro romano fanno gola a nuovi e vecchi palazzinari. E una vera devastazione interessa l’area fiorentina, dove il paesaggio rurale della piana a ovest della città sta scomparendo e si sta realizzando la saldatura fra il capoluogo e gli insediamenti della provincia: uno degli ultimi baluardi di verde è l’area di Castello, sulla quale dovrebbero abbattersi più di un milione di metri cubi (la vicenda è ora in mano alla magistratura).
Sfogliando il catalogo sono molte le pagine in cui suonano i campanelli d’allarme. Ma una in particolare si segnala, quella dedicata al paesaggio agrario del Parco delle colline a nord di Napoli, un’area di oltre duemila ettari che dalle pendici della collina dei Camaldoli, dalle conche dei Pisani e di Pianura si infila fin dentro il centro storico della città, con le sue macchie di vegetazione e di giardini. L’area è saldamente tutelata e valorizzata dal piano regolatore, ma la sua vulnerabilità è massima. Lungo i confini meridionale e occidentale si aprono le voragini di numerose cave, profonde fino a ottanta metri, ora dismesse (quelle che si vedono nelle inquadrature del film "Gomorra"). In una di queste, a Chiaiano, è stata sistemata l’imponente discarica che adesso viene riempita con l’immondizia dei napoletani.