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Diego Motta
Campania. Sarno, il 5 maggio di vent'anni anni fa la marea di fango uccise 160 persone
6 Maggio 2018
Invertire la rotta
Avvenire, 4 maggio 2018. I disastri inconsapevolmente compiuti da chi governa e non pratica la pianificazione del territorio. Ma loro non sono le vittime, sono i carnefici. Con postilla

Avvenire, 4 maggio 2018. I disastri inconsapevolmente compiuti da chi governa e non pratica la pianificazione del territorio. Ma loro non sono le vittime, sono i carnefici. Con postilla

Vent’anni fa, tra il 5 e il 6 maggio 1998, una colata di fango scendeva su Sarno soffocando 137 persone, più altre 23 nei Comuni di Siano e Bracigliano, in provincia di Salerno, e in quello di Quindici (Av). 160 morti causati da un nubifragio eccezionale (30 cm di pioggia in tre giorni) che provocò il veloce scivolamento di due milioni di metri cubi di terra dai fianchi del Pizzo d’Alvano; altre frane interessarono diversi versanti del monte. La frazione Episcopio di Sarno venne completamente distrutta da 5 metri di fango, tanto da essere soprannominata «Pompei del 2000»; anche l’ospedale della cittadina venne spazzato via. Ma nella tragedia si intravede anche la colpa degli uomini: molte abitazioni erano costruite su terreni a rischio e il sistema fognario dei paesi colpiti era insufficiente. L’ex sindaco Gerardo Basile sarà processato e prima assolto, poi condannato a 5 anni di domiciliari. Dopo quel disastro si decise finalmente la sistematica mappatura del rischio idrogeologico in Italia.

Sarno, Italia. Vent’anni dopo. «Allora fu un fatto devastante» ricorda Francesco Russo, che era vicepresidente dell’Ordine dei geologi della Campania quel 5 maggio 1998, in cui la marea di fango si portò via un intero territorio. Le tracce sono visibili ancora oggi, sotto le volte del vecchio ospedale: in quelle ore, venne inghiottito tutto, gli uomini e le cose.

Sarno pagò il prezzo più alto, con 137 morti e la frazione Episcopio spazzata via dalle colate di lava fredda. Annichiliti anche i Comuni di Quindici, Siano, Bracigliano e San Felice a Cancello. Cosa resta di quella tragedia? «Il problema è stato proprio la gestione del dopo, in termini di pianificazione e di gestione del territorio» sottolinea adesso Russo.

All’epoca, furono fatali la quantità enorme di pioggia, i ritardi nella comunicazione dell’allarme imminente alla popolazione, il mancato sgombero di alcune famiglie. Scene che poi si sono ripetute, a distanza di anni, in altre situazioni e hanno interessato altri angoli della nostra penisola. Sulle opere compiute in questi anni, si discuterà in un convegno organizzato domani a Salerno, nel giorno dell’anniversario della tragedia: secondo i tecnici, Sarno ha visto completarsi l’85% delle opere previste. «Ma è venuta meno la messa in sicurezza della montagna» ha osservato Antonio Milone, che in quella tragedia perse il padre e che da anni guida l’associazione dei familiari delle vittime. Il problema vero è la manutenzione e dei fondi, che non ci sono.

Ad allungare lo strazio dei parenti delle vittime è rimasta in piedi anche la questione risarcimenti. Sarebbero una settantina i giudizi pendenti. «Non sediamo ai tavoli che contano – si lamenta Russo, a nome di tutti i geologi – . Si tagliano le risorse per la difesa del suolo e nessuno ha ancora capito davvero che, senza la necessaria messa in sicurezza di tutto il territorio, l’Italia resterà un Paese senza vere prospettive di sviluppo».

Nell’atto di accusa della categoria, c’è ovviamente il continuo rimpallo di responsabilità sul 'chi fa cosa', l’eterno scaricabarile che si mette in atto in Italia quando si parla di dissesto idrogeologico. «Vuole un esempio? Il cosiddetto 'vascone' di Sarno è stato pensato perché dovrebbe raccogliere una gran mole d’acqua nel caso di precipitazioni enormi, come quelle della primavera del 1998. Da solo non basta, però, se non si progetta a monte. Altre cose vanno completate, a partire dalle opere di contenimento».

È il rischio delle altre 'Sarno d’Italia', spesso dimenticate e trascurate, quello che va dunque esorcizzato una volta per tutte. In che modo? Puntando sugli interventi non strutturali, attraverso l’attivazione di presidi territoriali sull’intero territorio nazionale, valorizzando l’esperienza che fu avviata nelle zone interessate dagli eventi alluvionali del 1998, in modo da garantirne l’operatività non soltanto nelle fasi emergenziali, ma soprattutto in tempi di tregua. Quando si potrebbe fare di meglio e di più.

postilla

Ogni volta che accade una "calamità naturale", o la si ricorda, ci si comporta come dei bambini di prima elementare, anche se si pontifica dalle cattedre mediatiche o si finge si essere dei tuttologhi. Il guaio è che la cultura moderna ha trasformato l'uomo in un essere che sa guardare la realtà (ogni realtà) come se fosse un ammasso casuale di pezzettini privi di connessioni, se non quelle create dal caso.
Sfugge a tutti che la cose che ci appaiono come frammenti di un caos sono spesso realtà
olistiche: realtà che sono un insieme organizzato e coerente di parti interdipendenti le une dalle altre, talchè manometterne una, o anche semplicemente spostarla, significa rompere un equilibrio e, spesso, provocare un caos.
La superficie del nostro pianeta, il territorio, è appunto una realtà olistica, e per intervenire su di essa e governarne le trasformazioni occorre una visione che sia anch'essa olistica. Perciò l'unico procedimento inventato per governare il territorio senza farlo precipitare nel caos (oppure in qualcosa interamente governato dalle sole leggi della natura), è quello della sua pianificazione: si, la pianificazione territoriale, parte di una disciplina negletta e abbandonate alle ortiche per lasciare campo libero a ogni mano rapace e ignorante che vuole trasformare un pezzettino di suolo per diventare un po' più ricco o più potente.

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