«I costi per Juve (155 milioni), Sassuolo (3,75 milioni) e Udinese (500 mila euro all'anno) sono stati irrisori. Per impianti non nuovi. Mentre Roma (1 miliardo) e Fiorentina (420 milioni) fanno mega progetti. I rischi». Lettera43, 3 aprile 2017 (c.m.c.)
Famostistadi. Nella versione al plurale non è ancora diventato un hashtag, ma intanto la vicenda dello stadio della Roma ha fatto compiere uno scatto in avanti. I giorni delle polemiche tra la società giallorossa e la Giunta romana guidata da Virginia Raggi sono per il momento messi alle spalle. Non è detto che lo siano definitivamente, poiché la storia sembra tutt’altro che risolta. Molte cose vanno ancora messe a fuoco, e in ogni caso entrambe le parti vogliono provare a rimaneggiare la soluzione di compromesso raggiunta, per tirarla un po’ più verso sé.
Ottimismo sulle prospettive. Ma intanto la conseguenza immediata dell’accordicchio raggiunto è stato il modificarsi del clima intorno al dossier degli stadi privati. Perché da un giorno all’altro è parso che gli umori siano mutati in positivo, facendo percepire come più prossima un’innovativa stagione dell’impiantistica sportiva in Italia: quella degli stadi privati, posti sotto il controllo dei club calcistici con prospettiva d’incremento esponenziale dei ricavi.
Una narrazione di fortissima presa, costruita con semplificazioni spesso ai limiti del rudimentale, e condotta con l’utilizzo di un registro emotivo del discorso. Il risultato è una rappresentazione delle cose fondata sull’equazione “stadi privati = nuova età dell’oro”. Con la creazione di un mito sociale difficilissimo da confutare, perché la forza del ragionamento sarà sempre deficitaria rispetto alle passioni tifose, e perché il già carente senso italico per i beni collettivi non ha possibilità alcuna contro gli impeti da Curva Sud.
Anche Lolito ci riprova. E dunque, ecco che il sofferto compromesso raggiunto fra l’As Roma e la Giunta della capitale attizza le mire delle altre società calcistiche (e dei relativi gruppi d’interesse), incoraggiate a rilanciare progetti che parevano accantonati. Il primo è stato Claudio Lotito: al presidente e proprietario della Lazio non è parso vero di poter tornare alla carica per la costruzione del suo stadio. Ci aveva provato qualche anno prima proponendo l’edificazione di un impianto sulla via Tiberina, un’idea bocciata dalla giunta di Walter Veltroni. Ma adesso che l’altro club romano si è visto dare l’ok la prospettiva cambia, e il massimo dirigente laziale l’ha messa sul piano del diritto alla par condicio: se la sindaca ha detto sì alla Roma non può dire no alla Lazio. E che non si parli di ristrutturazione dello Stadio Flaminio, ché di contentini Lotito non vuol proprio saperne.
Dobbiamo credere in modo acritico al fatto che una nuova generazione di stadi di proprietà possa essere la panacea per il calcio italiano?
E dunque eccoli tutti lì, pronti e schierati per avventarsi su un business che se si fondasse soltanto sulla retorica avrebbe già prodotto perlomeno 5 punti di Pil. A sentire il coro, sembra quasi che ci sia un ventaglio di chance che aspettano soltanto di essere colte, con una cascata di soldi che aspetta soltanto di veder liberare le chiuse per potersi riversare sul calcio italiano.
Una narrazione contro i "Gufi". Se ciò tarda a succedere, continua la narrazione, è soltanto perché vi sono elementi esterni al calcio che ritarderebbero l’evento: dapprima le lentezze della legislazione nazionale, poi la miopia e i ritardi dalla politica e delle burocrazie di livello locale, e infine il vituperato comitatismo che nella lettura del Ptf (il Partito trasversale del fare, che nel mondo del calcio allinea una delle sue sezioni più parolaie) esprime nei territori una nuova forma di luddismo anti-pallonaro. Una sorta di Santa alleanza contro la modernità del calcio italiano cui addebitare ogni colpa. Ma le cose stanno davvero così? E soprattutto, dobbiamo credere in modo acritico al fatto che una nuova generazione di stadi di proprietà possa essere la panacea per il calcio italiano?
In Italia ci sono tre impianti sotto il controllo dei club: lo Juventus Stadium, la Dacia Arena dell’Udinese e il Mapei Stadium del Sassuolo. In nessuno dei casi si può parlare di "nuovo" stadio
Bisogna partire proprio da quest’ultimo punto, e dallo stato dell’arte. Che in Italia parla della presenza di tre stadi interamente sotto il controllo dei club: lo Juventus Stadium, la Dacia Arena dell’Udinese e il Mapei Stadium del Sassuolo. Tre storie diverse sotto tutti gli aspetti, ma accomunate da un dato: in nessuno dei casi si può parlare di nuovo stadio.
Il J-Stadium? Quasi come Higuain. Lo Juventus Stadium, che pure è quello per il quale sono state necessarie le opere più radicali, nasce dalle macerie (anche economiche e morali) dello Stadio delle Alpi. Cioè uno dei monumenti allo spreco di cui è costellata la storia di Italia 90. Disegnato su una capienza quasi dimezzata rispetto all’impianto antecedente (da poco meno di 70 mila a 41.500 mila posti a sedere), lo J-Stadium è stato inaugurato nel 2011 e realizzato in due anni con una spesa di circa 155 milioni di euro. Se si considera che nell'estate del 2016 il club bianconero ne ha spesi quasi 100 per strappare Gonzalo Higuain al Napoli, si capisce quanto relativa sia la cifra.
Per quanto riguarda la Dacia Arena, altro non è che il vecchio Stadio Friuli sottoposto a ristrutturazione e concesso per 99 anni all’attuale proprietà del club bianconero, retta dalla famiglia Pozzo. Costo delle opere: circa 50 milioni. Che spalmati su una concessione di 99 anni fa 505 mila euro e rotti all’anno. Non indicizzati. Il budget per una modesta società di serie D. Anche in questo caso la capienza è stata drasticamente ridotta: poco più di 25 mila, rispetto ai quasi 40 mila dei tempi di Italia 90.
Dacia , la colorazione "Anti-vuoto". Un quasi dimezzamento che non ha avuto effetti apprezzabili sugli ampi vuoti delle gare di campionato. Si è provato a tamponare l’effetto-stadio vuoto piazzando sugli spalti i seggiolini colorati, un’idea copiata da dal nuovo Alvalade, lo stadio dello Sporting Clube de Portugal rinnovato in occasione degli Europei 2004. Con la differenza che nello stadio di Lisbona i seggiolini colorati vengono occupati da spettatori in carne e ossa.
Scontro sul nome dell'impianto. Un’ultima annotazione sul “nuovo” stadio dell’Udinese: riguarda la denominazione “Dacia Arena”, che è stata oggetto di proteste "identitarie" da parte di una frangia della tifoseria (schierata in difesa del nome “Friuli”, espressione del legame col territorio), nonché tema di dispute da sudoku giuriduco in sede di istituzioni locali. Attualmente la questione è sotto la lente del Consiglio di Stato, con l’Udinese che giura non si tratti di pubblicità, ma di “naming right”. E adesso si attende il parere che farà giurisprudenza, però intanto si può dire che è molto difficile distinguere il confine fra pubblicità e naming right.
E infine c’è il Mapei Stadium. Che è lo stadio del Sassuolo, ma non ha sede a Sassuolo. Si trova a Reggio Emilia, ed è finito nelle mani della società neroverde capitanata dall’ex presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, attraverso un’asta fallimentare. Costo dell’acquisizione: 3,75 milioni, il prezzo di un buon calciatore di serie B. Anche in questo caso c’è un naming che potrebbe far discutere, ma la verità è che parlando dello stadio-del-Sassuolo-che-non-ha-sede-a-Sassuolo si entra in contatto con la sfera delle deformazioni della realtà e dell’indicibile.
Lo stadio Giglio,un autogol. Perché ci si sforza di vederlo come “lo stadio del Sassuolo” e intanto si rimuove la sua storia. Che è la storia dello Stadio Giglio, il primo impianto calcistico privato nella storia italiana. Nuovo di pacca - altro che J-Stadium e Dacia Arena -, sorto su impulso della Reggiana in un momento di hybris del club granata. La squadra era in serie A nella prima metà degli Anni 90, e pensava come se ci dovesse rimanere in pianta stabile. Per questo volle dotarsi di un impianto nuovo, sorto da un progetto ambiziosissimo ed esageratamente costoso per quella che era la dimensione del club: 25 miliardi di lire.
Come sia andata a finire, è noto: la Reggiana disputò soltanto altri due campionati di A nel giro di tre anni, poi a partire dalla fine della stagione 1996-97 cominciò a sprofondare nelle categorie inferiori. Il carico di debiti generato dalla costruzione dello Stadio Giglio portò al fallimento della società nell’estate del 2005, con ripartenza dalla serie C2 grazie al Lodo Petrucci.
Tribune riempite dagli ospiti. E dal fallimento veniva interessato anche lo stadio, messo all’asta dal curatore. Una prima asta tenuta nel 2010, con base di 6 milioni, andò deserta. Tre anni dopo, la svendita a 3,75 milioni. Per la serie: il grande business degli stadi privati. Ma, per carità di patria, di questo non si parla. Meglio dire che «il Milan ha vinto in trasferta a Sassuolo», cancellando pure l’evidenza della dislocazione. Ultima annotazione: gli spalti del Mapei Stadium sono popolati soprattutto dalle tifoserie avversarie. Altro dato di fatto su cui vige la congiura del silenzio.
Tutto ciò per dire che siamo ancora alle premesse di una vera stagione degli stadi privati. Che gli esempi citati fin qui, di nuovo, hanno poco o punto. E che sull’unico, reale precedente di stadio privato costruito ex novo, come si è visto è meglio stendere un velo pietoso, altro che boom di entrate e economie di scala. Questi ammonimenti vanno tenuti presenti intanto che altri due nuovi progetti vengono magnificati: lo stadio della Roma a Tor di Valle e quello della Fiorentina nell’area Mercafir.
Solo suggestive presentazioni. Due interventi di ben altra portata, anche in termini di costi: circa 1 miliardo di euro per l’impianto giallorosso (che invero è soltanto minima parte dell’intera operazione fondiaria), “soltanto” 420 milioni per quello della società viola. Costi enormi, con ritorni la cui certezza e i cui tempi sono tutti da dimostrare. Sempre che nel frattempo si esca dalla vaghezza. Perché bisognerà vedere in che modo riaggiustare il progetto dello stadio romanista dopo la soluzione di compromesso. E perché l’impianto della Fiorentina, al momento, è una suggestiva presentazione in power point e poco altro.
Le cubature salveranno il calcio. Tutto il resto è da scrivere, a partire dal piano finanziario e dall’individuazione dei privati che dovrebbero metterci il capitale di rischio. Ma l’importante è continuare a raccontarsi la favoletta. Dateci le cubature e faremo tornare il calcio italiano all’età dell’oro.