Dopo la ferita dei bombardamenti del 1943, che avevano raso al suolo buona parte del cento storico, Cagliari negli anni del boom economico (i Cinquanta e poi per tutti i Sessanta), era cresciuta. Sede dell’amministrazione regionale, centro politico ma anche economico dell’isola. Un’imprenditoria quasi tutta legata ai traffici commerciali con la penisola, comprare e rivendere, rivendere e comprare. Poca industria vera, sino all’arrivo dei Moratti con la loro raffineria a Sarroch, sul finire degli anni Sessanta. Ma anche, in una città in tumultuoso sviluppo urbanistico,speculatori edilizi e palazzinari. Nei primi anni Settanta a Sant’Elia accaddero due cose che cambiarono per sempre il volto del quartiere: la decisione di trasformare la ex zona paludosa bonificata in un’area di edilizia popolare e quella di costruire al limite est il nuovo stadio del Cagliari Calcio.
Decisioni prese da un’amministrazione comunale di segno moderato, dominata dalle correnti democristiane più conservatrici. Alle quali, però, nessuno si oppose. Cagliari cresceva in popolazione a ritmi esponenziali, la fame di case era grande. E poi la squadra di football era quella dello scudetto, la squadra di Gigi Riva “Rombo di tuono”: si poteva negare all’undici guidato da Manlio Scopigno, che aveva regalato a una città mezzo nobile d’antico lignaggio iberico e mezzo stracciona un sogno che sembrava impossibile? No. E così, sotto la piccola collina dove continuavano a stare i pescatori, nell’avvallamento dove prima era soltanto acqua stagnante e saline, sorsero enormi orrendi palazzoni dove mettere quelli che cercavano casa e non potevano permettersi i prezzi di mercato. E insieme ai casermoni, lo stadio nuovo. Due simboli del benessere conquistato, una carta di credito per l’ingresso nel palcoscenico sul quale si costruiva una miserevole identità nazionale
Che cosa significa, per uno che sta a sinistra, diventare sindaco di una città governata per decenni, dal secondo dopoguerra in poi, da forze politiche espressione di un blocco sociale conservatore che ha dato al tessuto urbanistico la forma corrispondente a ben precisi interessi economici? Massimo Zedda, prima Pd e poi Sel, è diventato sindaco di Cagliari il 30 maggio del 2011, alla testa di uno schieramento di centrosinistra. Una svolta, in larga parte inattesa. Un’occasione storica.
La sua elezioni a sindaco, quasi tre anni fa, rappresentò una rottura e accese le speranze di un cambiamento radicale. Che bilancio si può fare oggi?
Abbiamo dato uno stop netto al saccheggio urbanistico della città. Ci siamo mossi da subito lungo una linea di adeguamento del piano urbanistico comunale alle direttive di tutela sancite dal piano paesaggistico approvato nel 2006 dalla giunta Soru. Abbiamo approvato il piano particolareggiato del centro storico, il piano della mobilità, il piano di utilizzo dei litorali. Tutto secondo un’ottica di restauro e di riutilizzo del patrimonio edilizio già esistente, in particolare di quello di proprietà pubblica: del comune, della Regione Sardegna, del demanio. Basta con l’aumento delle volumetrie e con il dissennato consumo del territorio. Rispetto al passato è una svolta radicale.
Qualche vostra decisione in dettaglio?
Intanto la pedonalizzazione di vaste aree del centro storico, in passato intasate e snaturate da un traffico caotico, senza regole. Meno auto private e un potenziamento del trasporto pubblico e la definizione di un sistema di parcheggi intorno al centro, con l’obiettivo di fornire un servizio a chi usa le auto per arrivare dalle periferie senza che questo significhi, come nel passato, l’invasione delle strade e delle piazze da parte del traffico privato. Tenendo conto anche che il centro storico di Cagliari è molto ampio. I quattro quartieri antichi di Marina, Stampace, Villanova e Castello insieme coprono un’area molto più vasta, ad esempio, di quella della parte storica di una città come Praga.
Per la spiaggia del Poetto che cosa avete fatto?
Come si sa quel litorale nel passato recente è stato devastato da un ripascimento disastroso. Al problema dell’erosione della spiaggia si è risposto aggiungendo sabbia prelevata dai fondali al largo del Golfo di Cagliari. Con esiti che hanno modificato le caratteristiche ambientali di un sito che per la città ha una rilevanza anche urbanistica centrale. Noi abbiamo puntato invece su interventi strutturali, che hanno come obiettivo quello di una riqualificazione urbanistica dell’intero litorale, che si estende per otto chilometri dalla Sella del diavolo sino alla città di Quartu. Abbiamo trovato i fondi per un progetto che è già in fase esecutiva e che modificherà in maniera sostanziale il volto e la funzione urbanistica di tutta la zona. Istituiremo, ad esempio, un’area pedonale che sarà una specie di cordone tra la spiaggia e la strada che corre parallela all’arenile.
Il tessuto urbanistico di Cagliari è ricco di aree demaniali in uso a strutture militari. Cosa avete fatto per recuperarle alla città?
Come amministrazione comunale abbiamo cercato di costruire un fronte unitario con la Regione Sardegna per aprire un confronto con il ministero della Difesa che consentisse una “liberazione” se non totale almeno parziale di quelle aree, che sono davvero molto vaste e tutte di grande pregio urbanistico e ambientale, dai vincoli militari. Non abbiamo trovato grande sensibilità nella giunta di centrodestra presieduta da Ugo Cappellacci. Contiamo di riprendere il discorso con il nuovo esecutivo, guidato da Francesco Pigliaru dopo la vittoria del centrosinistra alle elezioni regionali dello scorso febbraio.
E per le periferie? In particolare per Sant’Elia?
Sant’Elia in realtà non è una periferia. È un quartiere ormai pienamente inserito nel cuore del tessuto urbanistico. Lì esiste un enorme problema di disagio sociale e di emarginazione che stiamo affrontando attraverso la creazione di strutture permanenti di integrazione sociale. Le scelte che sono state fatte in passato hanno trasformato Sant’Elia in un corpo separato. Correggere quelle storture è uno dei compiti che ci siamo assegnati. Vedere la questione soltanto in termini di ordine pubblico è sbagliato. Bisogna puntare invece ad inserire pienamente il quartiere nella vita della città. Ed è esattamente questo che stiamo cercando di fare, con non pochi risultati incoraggianti