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Giorgio Todde
Cagliari malata di "sviluppite"
17 Aprile 2014
Altre città
«La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo"». .Il manifesto, 17 aprile 2014

«La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo"». .Il manifesto, 17 aprile 2014

I nura­gici erme­tici. Poi i Fenici trac­ciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Van­dali. Poi Bisan­zio e i due evi medi. L’epoca dei Giu­di­cati, le inva­sioni more­sche, i Pisani e i Geno­vesi. Eleo­nora d’Arborea e il suo nuovo ordi­na­mento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spa­gnoli e la deca­denza. Il Set­te­cento, i Savoia, il Regno di Sar­de­gna la rivo­lu­zione poi e la moder­niz­za­zione otto­cen­te­sca. Gli echi del Risorgimento.

Poi il XX secolo. Anto­nio Gram­sci fa il suo liceo a Cagliari. La car­ne­fi­cina della Grande Guerra. Pastori e con­ta­dini, riu­niti nella Bri­gata Sas­sari man­dati a morire sul Carso e Emi­lio Lussu. Poi il fasci­smo, la seconda guerra, l’occupazione tede­sca senza san­gue, i bom­bar­da­menti anglo-americani del ‘43. La città ini­zia la sua rico­stru­zione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe diri­gente insieme ai nuovi brutti quar­tieri, anni 50 e 60, che la raf­fi­gu­rano. L’edilizia cac­cia via l’architettura. Impre­sari e com­mer­cianti dise­gnano la città sulla pro­pria imma­gine e pro­du­cono una gene­ra­zione poli­tica con­for­mata, come un calco di gesso, alla loro visione mate­riale delle cose. I cosid­detti intel­let­tuali si rifu­giano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lon­tano dalle azioni.

Ma qual­cosa cam­bia negli ultimi decenni. Si smette di masti­care i fiori di loto e la memo­ria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si rico­no­sce. Si risve­glia un’anima cri­tica che comu­nica, osserva ed è inte­res­sata alle pro­prie ori­gini. E ricava ener­gia dal pas­sato senza essere pas­sa­ti­sta. Guarda indie­tro per essere moderna per­ché quando uno sa da dove viene non ha biso­gno di altro. E si oppone alla fre­ne­sia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mer­can­tile, resta forte.

La città è cre­sciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filo­so­fia del costruire. Amne­sia del pas­sato. Ha rico­perto di asfalto e cemento il suo con­tado agri­colo e lo chiama hin­ter­land. Detur­pato la sua spiag­gia abba­gliante. Vio­lato con bitume, palazzi e fab­bri­che gli sta­gni scon­fi­nati a est e a ovest. E tutto que­sto lo chiama «svi­luppo» men­tre dimo­stra che quando la poli­tica si con­fonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.

Cagliari è un’incubatrice di que­sta malat­tia. Però la sto­ria è incan­cel­la­bile. I luo­ghi resi­stono e met­tono in movi­mento gli avve­ni­menti. I morti della necro­poli di Tuvi­xeddu pos­sie­dono la forza dell’assoluto e ancora deter­mi­nano con­se­guenze. La rocca medie­vale resi­ste ai ten­ta­tivi di ren­derla «pro­gre­dita» con scale mobili e fer­ra­glia. Il pro­mon­to­rio sacro della Sella del Dia­volo resterà intatto anche se la città fame­lica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resi­sterà ai nuovi asse­dianti che oggi vogliono un vol­gare garage den­tro le sue mura.

Nel 1956 avevo cin­que anni. Il brac­cio quasi lus­sato quando pas­seg­giavo a traino delle mani inac­ces­si­bili di mio padre, il lun­go­mare, il mer­cato al cen­tro della città, le bar­che che tor­na­vano tanto cari­che che i pesca­tori sta­vano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sem­bra­vano pio­vre, le anguille scap­pa­vano dalle cesti nelle cor­sie del mer­cato, i pesci boc­cheg­gia­vano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.

Ma i fat­ti si muo­ve­vano per neces­sità che non com­pren­devo. E non obbe­di­vano a nessuno. Ero troppo pic­colo per capire cosa acca­deva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, sem­pli­ce­mente, non guar­davo per­ché, appeso alla mano di mio padre, osser­vavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico oriz­zonte per me.

So che i monti che vedevo a meri­dione erano il pro­filo dei monti del golfo, ma allora cre­devo che fosse l’Africa per­ché sen­tivo ripe­tere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delu­sione. Però con­ti­nuai a crederci.

Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova mera­vi­glia che il mae­stro, ammi­rato dal pro­gresso ben­ché con­ser­vasse la sua casa come un salotto di Nonna Spe­ranza, ci aveva già annun­ciato a scuola. Il grat­ta­cielo.

Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo pre­sente e tutti vole­vano solo pre­sente e futuro. Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stu­pore quello che pro­vai vedendo quel lungo paral­le­le­pi­pedo gri­gio con decine e decine di fine­stre fune­ra­rie. Ancora oggi ricordo la sen­sa­zione di per­dita che pro­vai e ricordo che non com­presi, ero troppo bam­bino, quel sentimento.

Quella costru­zione infan­til­mente chia­mata grat­ta­cielo, che ancora esi­ste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, tal­mente brutto che diventò proverbiale.

Però il brutto è epi­de­mico e quando ini­zia si mol­ti­plica con enig­ma­tica testar­dag­gine. Non lo fermi più. Deve, si vede, neces­sa­ria­mente tra­scor­rere e con­clu­dersi un’epoca.

Eppure tutti vedevano. Fu un’amnesia di massa che non è mai ces­sata da allora. E chissà se riac­qui­ste­remo mai la memoria. Ma, l’ho detto, tutti vole­vano abban­do­nare il pas­sato, anche quello buono.

Mia nonna, men­tre pas­seg­giavo e gio­cavo in un ter­ra­pieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che comin­ciava a esserci troppo cemento e che tutti que­sti nuovi arri­vati dal con­tado — così chia­mava gli inur­bati che arri­va­vano da ogni parte dell’isola — sta­vano ren­dendo deforme la città. Che lei era comu­ni­sta, ma que­sto non le impe­diva di capire che c’erano per­sone rese feroci pro­prio dall’arrivo in città e che ave­vano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un igno­rante non sa mai di essere ignorante.

Appena tirano su un muro si fanno chia­mare cava­lieri e com­men­da­tori, ripeteva. D’altronde il cemento aveva reso facile e pos­si­bile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribol­liva di cemento, ma io non lo sapevo. E nep­pure nonna. Però osser­vava la sua città.

Lei vedeva la brut­tezza del cemento, capiva che non si può met­tere insieme cemento e pie­tra per­ché invec­chiano in modo diverso, che la pie­tra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.

Il cemento è un mate­riale che non sa invec­chiare. La pie­tra, invece, è già vec­chia, esi­ste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a dise­gnare forme squallide.

Era squal­lido anche il bar aperto al piano terra nel «grat­ta­cielo», cat­tive le brio­che, il caffè puz­zava di bru­ciato e un moscone gia­ceva a pan­cia all’insù, mum­mi­fi­cato per sem­pre in un angolo della vetrina pretenziosa. Den­tro quel palaz­zone c’erano però alcuni segnali impor­tanti del pre­sente che sedu­ceva la comu­nità e la con­vin­ceva che il pas­sato era vergognoso.

Però è vero che nella mia città una luce che non finiva nep­pure la notte e un sole felice anche d’inverno mi face­vano sen­tire for­tu­nato e lon­tano da ogni pericolo.

Tra­slo­cammo nel 1962 in una nuova casa. E tutto mutò.

La nostal­gia è un sen­ti­mento indi­spen­sa­bile, ma deve essere orga­niz­zato. Sennò si sof­fre. Oltre­tutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.Tra­slo­cammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa lumi­nosa, moderna, con due bagni, con davan­zali, una por­ti­ne­ria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.

Quel quar­tiere era il con­fine della città sto­rica, però mi sem­brava un salto nel futuro. E ogni volta che pas­sa­vamo vicino alla vec­chia casa tra­sci­navo la mano che mi con­du­ceva per entrare den­tro il por­tone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.

Il tra­sloco cam­biò i giorni e le ore della fami­glia, cam­biò per­fino l’espressione dei geni­tori, il lin­guag­gio, i vestiti, le abi­tu­dini a tavola, la puli­zia dome­stica e per­fino l’igiene del corpo, gli odori e la memo­ria degli odori .Il tra­sloco è l’allegoria del cam­bia­mento ine­vi­ta­bile, ma non necessario.

Con il camion carico di mobili apparve la dif­fe­renza tra pre­sente e pas­sato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva bat­tuto a mac­china il suo nome su un foglio, rita­gliato la stri­scia di carta e l’aveva infi­lato nella fes­sura del nuovo cam­pa­nello. Poi aveva letto a voce alta il pro­prio nome e schiac­ciato il pul­sante. Quel trillo era il segnale della città nuova.

Riferimenti
Le precedenti puntate della serie di inchieste sulle città italiane dopo 30 anni di neoliberalismo sono state dedicate a Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20 marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile), Reggio Calabria e Messina (10 aprile).
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