Nel dopoguerra e ancora fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, al tempo del «buongoverno» inaugurato da Giuseppe Dozza, i funzionari della polis ponevano al contrario la massima cura nel tenere insieme l’urbs e la civitas, lo sviluppo e la manutenzione della città materiale con quello della coscienza civica intesa come riconoscimento di un unico, comune sentire, oltre che di comuni concreti bisogni. Erano i tempi della «democrazia sociale» bolognese, al cui interno la riorganizzazione dei servizi era concepita, per riprendere una distinzione di Nadia Urbinati, non come un semplice atto dovuto ma come una proattiva «funzione della cittadinanza democratica», in grado cioè di favorire la complessiva emancipazione sociale di tutti i soggetti, anche quelli che in apparenza del singolo servizio non usufruivano: si pensi soltanto all’invenzione della scuola a tempo pieno, in grado di riconfigurare il complesso delle relazioni tra i tempi del lavoro, dell’apprendimento e della cura famigliare, e perciò di trasformare la struttura temporale del meccanismo dell’intera città; oppure si pensi, prima ancora, alla riflessione sul decentramento e alla nascita dei quartieri, volta a consolidare la partecipazione dei bolognesi alla vita in comune.
Se a partire dalla fine degli anni Ottanta l’autocritica manca, la riconversione in senso privatistico della gestione pubblica è però tempestiva, quasi che proprio questa fosse l’implicita ragione del nuovo corso del governo locale. Giusto al 1989 risale il progetto di privatizzare le farmacie comunali volute da Dozza nel 1949, mandato poi ad effetto un decennio dopo dal sindaco Walter Vitali in seguito a un referendum consultivo che i dirigenti del Pds invitarono a disertare: con pieno successo, anche se in assoluto dispregio degli strumenti di partecipazione diretta previsti dallo Statuto comunale.
Al riguardo la parabola è esemplare, e tutta orientata nel senso della progressiva crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico: parte dal sindaco Giorgio Guazzaloca (1999–2004), il primo sindaco di centro-destra, alfiere di una stereotipata «bolognesità» e termina con la gestione commissariale dell’ex ministra Annamaria Cancellieri (2010–11), vale a dire con l’azzeramento di ogni possibile rappresentanza politica locale. In mezzo due figure, molto differenti tra loro, vissute però dalla cittadinanza, per ragioni diverse, come due autentici infortuni: il sindaco Sergio Cofferati (2004–9), percepito alla fine dai bolognesi in termini di quasi assoluta estraneità, e il sindaco Flavio Delbono (2009–10) il cui brevissimo governo terminò scandalosamente nelle aule giudiziarie.
Le ragioni di tale cortocircuito politico-amministrativo appartengono però non alla cronaca ma alla storia, alla matrice della coscienza politica, all’estesa mente (mind) urbana costituita dalla collettività nel suo rapporto con la materiale struttura cittadina (brain) che allo stesso tempo la produce e ne è il prodotto. E proprio l’ignoranza della natura di tale matrice è oggi all’origine dell’incapacità della politica locale ad assolvere il proprio compito: a Bologna più manifestamente che altrove.
Bologna però non è una città intelligente, è molto di più: è una città per natura cognitiva, nel senso che fin dalle origini il suo compito è stato quello di svolgere ruoli quaternari, connessi cioè alla produzione, all’interpretazione e alla messa in circolazione di informazione specializzata. A volerla restringere all’essenziale, nell’ultimo millennio e mezzo la sua storia svolge in maniera esemplare la vicenda dell’autorganizzazione di un sistema che attraverso la propria crescente complessificazione trasforma la propria struttura concreta senza però mutare la propria logica, e con essa la propria costituzionale identità. E ciò in virtù della capacità di trarre partito dalla perturbazione per rinchiudersi in maniera diversa su se stessa, generando nuovi ruoli e attività in grado di mantenere e rinforzare la natura originaria del funzionamento. Essenziale resta il fatto che per qualsiasi organismo i meccanismi dell’autorganizzazione sono quelli dell’attività cognitiva, i soli a permettere, attraverso il riconoscimento e il superamento della crisi, la nascita di nuove funzioni in grado di garantirne la sopravvivenza e la crescita. E che cosa fu, all’alba del Mille, l’invenzione a Bologna dello «Studio», dell’università, se non il risultato di tale attività da parte dell’organismo urbano bolognese?
Di converso: che cosa furono i fatti del 1977 se non l’effetto della sopravvenuta incapacità da parte di Bologna di accogliere, trattare, metabolizzare e rimettere in circuito il carico informazionale che dalla seconda metà degli anni Sessanta si era diretto verso di essa, e tradurlo in termini politici? Della incapacità di superare insomma un’ulteriore soglia del proprio processo auto organizzativo, di operare come mille anni prima nel senso di una progressiva articolazione della propria natura quaternaria, la sola il cui sviluppo sarebbe stato in grado di continuare a preservarne l’identità e perciò la coscienza, anzi il complesso delle coscienze?
Sul cerchio di gesso che marca contro il muro di via Mascarella il segno dei proiettili che l’11 marzo del 1977 uccisero Francesco Lo Russo qualcuno ha di recente apposto un tag nero: concretissimi soggetti, diversi dagli stessi studenti, provenienti da lontano e portatori di culture altre sono nel frattempo diventati visibili e si aggirano sotto i portici e lungo i viali. In fondo, come ha scritto Edgar Morin, «tutto ciò che esiste e si crea è qualcosa d’improbabile che hic et nunc diventa necessario». Il ritardo del dispositivo politico bolognese nel pensare la possibilità che «le cose potessero andare diversamente», per dirla con Karl Kraus, vale a dire il ritardo politico di Bologna dovuto alla sua mancanza di memoria, si traduce così nel dover fare i conti con necessità della cui portata soltanto oggi, a fatica e senza più grandi riferimenti, essa inizia a rendersi conto.