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Tania Groppi
Berlusconi: Il vero nemico è la democrazia
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Che c’è dietro la frase di fastidio di B. contro Ciampi e le procedure legislative, nell’analisi de l’Unità, 1 marzo 2005

Il problema non è soltanto la promulgazione delle leggi. Gli strali del presidente del Consiglio non si abbattono solo sul presidente della Repubblica, un Ulisse in balia delle sirene della sinistra. L’intero procedimento legislativo è ora sotto accusa. La sua lunghezza estenuante, mesi e mesi di emendamenti, votazioni, discussioni. Prima in una camera e poi nell’altra, in mezzo alle insidie dell’opposizione. E non basta: una volta che finalmente una legge sia approvata, occorre attuarla. Tra gli sgambetti, questa volta, dei ministeri e della burocrazia.

Non è la prima volta che l’attuale presidente del Consiglio esterna il suo fastidio per gli istituti della democrazia rappresentativa. Per le lungaggini delle procedure, che impediscono di realizzare in tempi brevi il programma politico di chi ha vinto le elezioni; che non «lasciano lavorare» chi è stato «unto» direttamente dal popolo.

Fastidio che si affianca a quello, che sfuma in ostilità, nei confronti degli organi di garanzia: magistratura, Corte costituzionale, Presidente della Repubblica.

Il nesso è evidente e, senza voler drammatizzare, preoccupante. Appare messa in dubbio, infatti, l'essenza stessa della democrazia costituzionale. Ovvero di quel regime di reggimento delle società umane secondo il quale il potere politico è esercitato dalle maggioranze che vincono le elezioni, ma attraverso procedure predefinite e in presenza di controlli che impediscano al potere legittimo della maggioranza di mutarsi in arbitrio. Neppure la legge, espressione per eccellenza dell'indirizzo politico, sfugge a questa regola: il procedimento legislativo è definito nelle sue linee fondamentali dalla Costituzione; anche la legge è sottoposta a controllo, politico del Presidente della Repubblica in sede di promulgazione, giurisdizionale della Corte costituzionale.

E non si tratta di una mera “teoria” della democrazia, che si può accogliere o rifiutare. Ma di una principio costituzionale, che informa tutto il nostro ordinamento. L'art. 1 della Costituzione, infatti, dopo aver affermato il carattere democratico della Repubblica, stabilisce che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Sovranità popolare, quindi; ma, al contempo, forme e limiti al suo esercizio: questa è l'essenza dello Stato democratico voluto dai Costituenti, sulla cui base ha da svolgersi la vita politica e la dialettica istituzionale.

La concezione della democrazia del presidente del Consiglio appare estranea a questa matrice, liberale e costituzionale. È invece un regime ove il popolo parla una sola volta, nel giorno delle elezioni, investendo con il suo voto un governo (o, per essere più precisi, un premier) che, per tutto il suo mandato, deve poter agire senza limiti di sorta allo scopo di realizzare il suo programma: senza dover seguire noiose ed inutili procedure, senza essere sottoposto a fastidiosi controlli.

In tal modo, però, non soltanto viene messo in discussione, sul piano ideale e teorico, il fondamento stesso del nostro ordinamento democratico. Viene anche aperta la strada allo scardinamento delle precise prescrizioni nelle quali il principio dell'art. 1 si traduce. Che sono contenute sia nella seconda parte della Costituzione, quella che disciplina i rapporti tra i poteri dello Stato e il procedimento legislativo, sia nei regolamenti parlamentari.

Per le norme regolamentari l'aggiramento o la violazione è agevole, anche se non per questo meno grave, in quanto il loro rispetto è rimesso alla correttezza istituzionale e, in ultima istanza, è affidato ai presidenti delle camere, espressione nella presente legislatura della maggioranza parlamentare.

Più difficile è invece evitare le norme costituzionali di organizzazione: queste, infatti, in base alla Costituzione ancor oggi vigente, hanno i loro garanti, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale, così come disegnati dai Costituenti. Chi le ritenga soltanto un inutile impaccio non ha di fronte a sé che due vie (non necessariamente alternative): la delegittimazione dei garanti e la riforma costituzionale.

Entrambe si stanno svolgendo sotto i nostri occhi. Gli attacchi al Presidente della Repubblica e alla Corte costituzionale si accompagnano a un progetto di riforma volto a indebolire il sistema delle garanzie previsto dalla nostra Costituzione. Proprio in questi giorni il Senato sta approvando (a colpi di maggioranza, naturalmente) un disegno di legge di revisione costituzionale finalizzato a modificare l'intera parte seconda della Costituzione, aumentando tra l'altro i poteri del premier in conseguenza dell'investitura diretta.

Non va negata l'esistenza, nelle moderne democrazie, di un problema di capacità, delle istituzioni, di fornire risposte efficienti alle domande di società sempre più complesse e globalizzate. Soprattutto laddove, come in Italia, esista una forma di governo parlamentare ancora caratterizzata da un multipartitismo estremo. In presenza di governi di coalizione, di maggioranze litigiose e artificiose, non si può ignorare la difficoltà di produrre, in tempi ragionevoli, decisioni politiche. Qualsiasi governo, in Italia, si è dovuto scontrare con questo tipo di ostacoli nella realizzazione del proprio programma, anche dopo la modifica del sistema elettorale, nel 1993 e la razionalizzazione dei lavori parlamentari, con le riforme dei regolamenti realizzate già a partire dalla fine degli anni '80.

Riconoscere l'esistenza di alcune disfunzioni nella nostra forma di governo, e pensare di superarle usando gli strumenti del diritto (anche, se necessario, attraverso la revisione di alcune regole procedurali) è però ben diverso dal mettere in discussione l'impianto della nostra democrazia. Magari per sostituirla con la rapida ed efficace decisione di uno solo. Le procedure parlamentari, e tra esse il procedimento legislativo, non costituiscono un quid pluris, che si possa sacrificare su un qualsiasi altare, sia quello dell'efficienza, sia quello della sovranità popolare. Le regole procedurali sono l'elemento portante della democrazia. Solo in tal modo è garantito che le decisioni siano adottate attraverso la discussione e la partecipazione di tutti i soggetti politici. E, anche se alla fine sarà approvata la proposta della maggioranza, ciò avverrà attraverso un confronto con le minoranze che consenta il miglioramento e la messa a punto del testo, in modo pubblico e trasparente.

Il tempo della democrazia richiede una certa dose di “lentezza”. Negare ciò, in nome sia dell'efficientismo spinto all'estremo, sia della “unzione” popolare, vuol dire mettere in dubbio le basi stesse del nostro ordinamento.

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