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Ida Dominijanni
Berlusconi fuori dal tempo
23 Gennaio 2009
Articoli del 2009
Fuori dal tempo e dalla storia: quando fuori dal Parlamento? Da il manifesto, 23 gennaio 2009 (m.p.g.)

Per quanto si affanni a seminare ottimismo e a ingiungere consumismo (salvo il tardivo allarme per la crisi dell'auto), a promettere sfracelli sulla giustizia e a costruirsi pioli per il Quirinale, a tenersi incollati Fini e Bossi e a emettere decreti legge, Silvio Berlusconi appare ormai un capo di governo e un leader politico fuori dal tempo e dalla storia. E per quanto possa sembrare una fantasticheria dirlo a fronte della nuda realtà dei numeri del parlamento e dei sondaggi, il suo astro appare destinato a tramontare nella svolta politica, geopolitica e culturale che l'elezione di Barack Obama imprime a ciò che negli ultimi decenni si è configurato come l'ordine egemonico del discorso occidentale.

Non si tratta di attribuire alla presidenza americana un effetto immediato di trascinamento sugli equilibri di governo europei: questo effetto non è detto che ci sia, anche se è auspicabile e prevedibile che di qui a poco il vento del cambiamento che spira dall'altra sponda dell'oceano si farà sentire, se non sui governi, almeno sulle società anche da questa. Si tratta, più realisticamente, di ricollocare Berlusconi in un contesto cambiato, e di riproporzionarlo di conseguenza.

Berlusconi, lo sappiamo, è stato e resta un fenomeno prettamente e autenticamente italiano, radicato nella modernizzazione degli anni Ottanta, concimato da una più lunga storia di cittadinanza debole e di «uomini forti» al comando, sbocciato nella crisi del sistema politico degli anni Novanta, alimentato dal consenso di un immaginario sociale ricalcato su di lui dalla sua televisione. Una «autobiografia della nazione», com'è stato detto, della quale non è stato dato tutt'ora sufficientemente conto e con la quale non smetteremo di dover fare i conti anche dopo il suo esaurimento politico.

Tuttavia, Berlusconi non è stato solo un fenomeno italiano: è stato un fenomeno italiano che ha anticipato tendenze più larghe, o le ha imitate o ne ha risentito. La sua «discesa in campo» del '94 ricordò a molti quella di Ross Perot alle presidenziali americane del '92. La sua costruzione di una leadership mediatica ha coinciso con la mediatizzazione della leadership in tutto il mondo, e la personalizzazione della politica da lui incarnata con la personalizzazione della politica in tutto il mondo. I processi di svuotamento e deformazione della democrazia da lui innescati in Italia - attacco allo stato di diritto, de-costituzionalizzazione, rafforzamento dell'esecutivo e indebolimento del parlamento e della rappresentanza - sono gli stessi processi che hanno svuotato e deformato le democrazie di tutto l'occidente. La sua narrativa antipolitica di imprenditore cresciuto fuori dal palazzo ha anticipato la diffusione di sentimenti antipolitici e di infatuazione per gli outsider nelle democrazie di tutto l'occidente.

Ancora, la sua concezione imprenditoriale dello stato, della società e della «riuscita» individuale è stata potenziata dalla razionalità neoliberista che dal centro dell'Impero americano ha irradiato in tutto il pianeta il verbo della forma-mercato, della libertà come imperativo cocainomane al «fai-da-te», della logica costi-benefici come misura morale dell'esistenza. La sua alleanza con i convertiti al fondamentalismo cattolico ratzingeriano ha imitato l'alleanza made in Usa fra la suddetta razionalità liberista e il neoconservatorismo, un'alleanza che lì e qua ha garantito al neoliberismo quel supplemento morale di cui la religione del mercato sarebbe stata altrimenti priva. Infine, l'altra sua alleanza strategica con il localismo razzista della Lega ha trovato eco e potenziamento nell'epidemia dello «scontro di civiltà» che ha colpito il mondo globale su scala micro e macroregionale.

Con l'elezione di Obama questo contesto internazionale, questa onda che ha disegnato il profilo di un'epoca, sono finiti. Ed è questa fine che consegna alla sua fine anche Silvio Berlusconi e la sua «impresa» politica, come se una nuova reazione chimica rivelasse improvvisamente l'obolescenza e le rughe del materiale plastico di cui è fatta.

Non si tratta, lo ripetiamo, di attribuire alla nuova presidenza americana capacità miracolistiche mimandone l'apparenza, né di fantasticare per domani mattina un impossibile ribaltone della maggioranza di governo qui in Italia. Una fine può essere lenta, travestirsi di potere livido, combinare molti guai. E nemmeno la prevedibile erosione di consensi che a Berlusconi verrà dal dispiegarsi della crisi economica autorizza l'opposizione a mettersi nella passiva attesa di una automatica alternanza di governo. Si tratta di percepire, registrare e interpretare questo cambiamento dell'epoca, questo smottamento di egemonia, questa nuova energia. E di reinventarsi, al di là delle alchimie delle sigle esistenti, un'alternativa politica, sociale e etica in grado di camminare in questo «dopo» in cui siamo già sospinti.

Quando un'epoca finisce, travolge nella sua fine i vincenti, ma anche i perdenti se restano attaccati a ciò che in quell'epoca sono stati. Ne può derivare una catastrofe o una rinascita. Prima l'immaginazione che non è al potere realizzerà che l'incubo è finito, smetterà di tenere in vita i propri spettri o di tenersi occupata col caso Villari, comincerà a far vivere nelle maglie di un presente ancora afferrato dal passato le possibilità del futuro, prima si chiarirà se c'è una catastrofe o una rinascita ad aspettarci dietro l'angolo.

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