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NEL GIORNO in cui il presidente del Consiglio torna ad accusare la "criminalità giudiziaria" che si annida nella magistratura italiana, le toghe siciliane assolvono Giulio Andreotti dal reato di associazione mafiosa. Silvio Berlusconi non poteva scegliere un pretesto più strumentale di questo, per aggiungere altra potenza di fuoco al devastante conflitto istituzionale che ha fatto esplodere dopo la pena di 11 anni inflitta a Cesare Previti per il reato di corruzione nelle vicende Imi-Sir/Lodo Mondadori.
Il Cavaliere, in preda ad un'ossessione giudiziaria che ormai rasenta l'eversione politica, trasforma in emergenza nazionale la sua pendenza personale. Non vede, o finge di non vedere, che se "c'è un giudice a Palermo", evidentemente c'è un giudice anche a Milano. Non vede, o finge di non vedere, che proprio la sentenza di assoluzione del senatore democristiano legittima la sentenza di condanna del deputato forzista. Non vede, o finge di non vedere, che entrambe le pronunce, a maggior ragione perché di segno diverso, confermano che in questa magistratura italiana, mai così assediata e vilipesa, si può e si deve credere. Rafforzano lo stato di diritto, il principio di legalità e il sistema delle garanzie dell'ordinamento giudiziario. Nel caso di Andreotti, dimostrando che l'impianto accusatorio costruito dalla procura non ha retto in dibattimento alla prova dei fatti. Nel caso di Previti, dimostrando l'esatto contrario. Ma in tutti e due i casi, sfociando in una decisione che si può non condividere, e contro la quale si può ricorrere nel successivo grado di giudizio. Ma che comunque si deve rispettare, allo stesso modo.
Nel contesto della sua violentissima battaglia contro le "toghe rosse", al premier avrebbe fatto più comodo che anche Andreotti fosse stato riconosciuto colpevole. Sarebbe stata un'arma in più, da usare nella guerra totale contro la "magistratura politicizzata". Ma la sentenza di Palermo, nonostante l'uso strumentale che ne fa Berlusconi, tradisce il corto-circuito logico della sua tesi del "complotto". L'assoluzione, secondo il presidente del Consiglio, "liquida il secondo dei grandi teoremi giustizialisti che nella primavera del '93 furono imbastiti per deformare il volto della nostra democrazia". In realtà, più che liquidarlo, smonta del tutto quel teorema. Se mai è esistito allora, proprio la sentenza Andreotti dimostra che oggi quel teorema non esiste più, se non nella testa del Cavaliere e degli avvocati-parlamentari del suo partito-azienda.
E proprio la sentenza Andreotti dimostra anche quanto sia incolmabile lo scarto tra uno statista democratico e un populista autoritario. Andreotti non è più al potere da anni. Ma del Potere, nel bene e nel male, rappresenta forse il modello più simbolico e inarrivabile. Lo ha incarnato insieme a Craxi e a Forlani fino al 1992, cioè proprio negli anni dell'ultimo "Caf" ai quali si riferisce la presunta "mattanza giustizialista" denunciata dal Cavaliere contro i vertici della Prima Repubblica. Il senatore a vita avrebbe potuto salire di corsa sulla locomotiva berlusconiana, lanciata a bomba contro i "giudici golpisti". Non lo ha fatto. Si è difeso "nei" processi. A Perugia ha incassato dignitosamente persino una condanna a 24 anni per il delitto Pecorelli, che tuttora grava su di lui in secondo grado. A Roma non ha bussato mai una sola volta alla porta dei vecchi sodali ex o post-democristiani riciclati, per elemosinare una legge Cirami ritagliata su misura. A Palermo ha tenuto una condotta processuale esemplare: con una mossa irrituale gliene ha dato atto in udienza lo stesso presidente della Corte d'Appello, additandolo pubblicamente come "esempio per il Paese" e contrapponendolo implicitamente agli imputati eccellenti dei processi milanesi.
Sperare che il presidente del Consiglio tragga da tutto questo qualche insegnamento è una ridicola illusione. Non solo non li modera, semmai esaspera ancora di più i toni. Governa "contro". "Contro" l'opposizione, e la metà della nazione che il centrosinistra comunque rappresenta. "Contro" la magistratura, e il sovrano e autonomo potere giudiziario che le toghe amministrano "nel nome del popolo italiano". "Contro" il presidente della Repubblica. Al Quirinale c'è una profonda amarezza per il nuovo attacco che il premier ha sferrato ieri contro "la criminalità giudiziaria", snobbando l'appello a un "dialogo costruttivo" lanciato solo 24 ore prima da Ciampi.
Il Capo dello Stato avrebbe preferito non intervenire direttamente nella contesa, innescata dalla sentenza sul processo "toghe sporche". La reazione immediata di Berlusconi, martedì sera, era già intollerabile: "Previti è vittima di una persecuzione, risolveremo il problema della politicizzazione di certa magistratura". Il presidente, mercoledì mattina, aveva consultato al telefono Bruti Liberati, presidente dell'Anm, e per ben due volte Virginio Rognoni, vicepresidente del Csm. Aveva affidato a loro, offrendogli una piena copertura politica, la replica ferma e determinata dell'intera istituzione. Nella speranza che la polemica si sarebbe chiusa così. Ma nel pomeriggio di mercoledì il Cavaliere ha alzato di nuovo il tiro, con la durissima "lettera-manifesto" al Foglio. Di fronte a questo ulteriore strappo istituzionale, Ciampi ha capito che toccava a lui intervenire. Ha buttato giù a penna dieci righe di testo, del quale ha informato i presidenti di Senato e Camera Pera e Casini. Giovedì mattina, festa del lavoro, le ha riassunte davanti alle telecamere dei Tg: "Le sentenze vanno rispettate", ha detto, ricordando i principi inviolabili fissati dalla Costituzione all'articolo 101 (i giudici sono soggetti soltanto alla legge) e all'articolo 27 (l'imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva, cioè al termine dei tre gradi di giudizio).
Anche in questo caso, Ciampi confidava in un messaggio che bastasse a spegnere l'incendio. Ma anche in questo caso, Berlusconi lo ha smentito. Prima un comunicato ufficiale, nello stesso pomeriggio di giovedì, poi ieri mattina l'ennesimo affondo sulla "criminalità giudiziaria". E' una spallata pesantissima agli equilibri istituzionali.
Il Capo dello Stato, d'accordo con Pera, sta premendo per far ripartire il progetto di Antonio Maccanico sulla sospensione dei processi nei confronti delle alte cariche dello Stato, che potrebbe essere inserita nel disegno di legge di riforma dell'articolo 68 della Costituzione di cui proprio il Senato tornerà ad occuparsi a partire dalla prossima settimana.
La strategia del Colle nasce da una forte preoccupazione politico-istituzionale. Ciampi teme un'accelerazione dei tempi del processo Sme, che vede imputato il presidente del Consiglio e che potrebbe arrivare a sentenza alla fine di giugno. Il timore del Quirinale è che questa scadenza pesi come un macigno sul semestre di presidenza italiana della Ue, e che di qui ad allora spinga il Cavaliere ad agitare il fantasma delle elezioni anticipate, destabilizzando il quadro politico almeno fino alle elezioni europee del 2004. Il lodo Maccanico potrebbe disinnescare questa miccia infernale: partito dalle file dell'Ulivo, avrebbe il pregio teorico di poter contare su un consenso bipartisan.
Ma in un clima politico così invelenito, come è possibile immaginare un confronto costruttivo tra i due Poli sull'immunità declinata secondo il modello spagnolo? In uno scontro "senza se e senza ma" tra i partiti e tra i poteri dello Stato, diventa realistica soltanto una "rappresaglia" unilaterale: il centrodestra in marcia sulla magistratura e sul Parlamento, a colpi di maggioranza. Con un obiettivo essenziale: portare a casa l'immunità subito dopo le elezioni amministrative del 25 maggio (per evitare di inquinare la campagna elettorale con un tema altamente impopolare), ma immediatamente prima della sentenza sul processo Sme (per poter scongiurare comunque l'eventualità di una condanna). Resta un solo dubbio: il Paese e le sue istituzioni possono reggere l'urto di questo folle percorso di guerra, che serve a pochi eletti ma non agli elettori?