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Aldo Tortorella
Berlinguer uno e due
18 Giugno 2004
Enrico Berlinguer
Un bell'articolo, pubblicato dal numero di La Rivista del Manifesto del gennaio 2004. Una limpida e appassionata ricostruzione di alcuni momenti essenziali della politica di Enrico Berlinguer. Qui accanto, una buffa istantanea di Berlinguer, inviata da un lettore che l'ha ripresa dai fascicoli Storia della Repubblica , allegati all' Espresso di una ventina d'anni fa

Debbo ringraziare Rossana Rossanda che polemizzando nel numero di novembre della rivista (1) con un mio articolo (2), ha riaperto la questione Berlinguer con una critica radicale e mi costringe, così, a ripensare cose antiche. È un esercizio non facile e un po' tormentoso. Ma, forse, può essere utile per capire meglio quel che succede oggi.

In quello scritto (dell'ottobre scorso) avevo replicato al giudizio del segretario dei Ds - Fassino - su Berlinguer, passatista e fallito, e su Craxi, modernizzatore e vincente 3. Quella sprezzante valutazione, spinta ai limiti della contumelia, riguardava il periodo ultimo della segreteria, e della vita, di Berlinguer: e solo su questo mi ero espresso. Rossanda ha esteso il discorso. E conclude: «… difendere la figura morale di Berlinguer dall'attacco volgare della destra socialista ed ex comunista non dovrebbe precludere il giudizio su quel che il berlinguerismo è stato.» Concordo pienamente. Avevo appunto fatto notare, in quell'articolo, che sono contrario a ogni visione acritica, per chiunque e in qualsiasi caso. Aggiungo che - se lo conoscevo bene - era questa anche la opinione di Berlinguer.

Proprio perciò non penso affatto quel che Rossanda mi fa dire e cioè che «se Berlinguer non fosse stato messo in difficoltà dalla morte di Aldo Moro e dalle manovre craxiane, la sorte del Pci sarebbe stata diversa». Non ho mai pensato e non ho scritto che «il declino e il dissolvimento del Pci» siano colpa di Craxi e della morte di Moro. Anzi se qualcuno sostenesse una tale tesi mi parrebbe uno sproposito e, riflettendo sulla fine del Pci 4 ho sostenuto tutt'altro, cercando di riandare, piuttosto, alla cultura costitutiva del vecchio Partito, piena di meriti, ma minata anche da contraddizioni divenute alla fine insuperabili.

Ma la mia argomentazione, dice Rossanda, «sembra suggerire» proprio quella tesi che io stesso giudicherei del tutto sbagliata. Il perché di quel «sembra suggerire» non viene dimostrato. Ma non importa. Su un «sembra», e cioè su una sensazione, è difficile ragionare. Mettiamo pure che la penna abbia tradito il pensiero. Dunque, ripeto. Ho replicato al giudizio di Fassino su Craxi e Berlinguer con tre argomenti. Il primo. La diversa eredità lasciata dai due dirigenti. Il secondo. La assurdità di definire «allo sbando», «senza bussola» eccetera un partito che, avendo visto il fallimento della sua politica (quella della solidarietà nazionale), se ne ritraeva e proponeva una nuova politica (quella dell'alternativa). Il terzo. La possibile fecondità della ricerca di fondamenti nuovi tentata da Berlinguer proprio in quell'ultimo periodo, dopo lo `strappo' con i sovietici.

Ma, obietta Rossanda, «il Berlinguer dal 1979 alla morte non è tutto Berlinguer, né quello storicamente più importante. Egli è l'uomo del compromesso storico». È certamente vero che la parte più lunga e più nota della segreteria Berlinguer è quella che prende il nome dal `compromesso storico', tradotto poi nei governi di solidarietà nazionale. Tuttavia, mi sentirei di discutere se la «parte più importante» nella vita di un politico (e di una persona) sia quella in cui segue una strada che si rivelerà infeconda o sbagliata o quella in cui riesce a criticare se stesso e a cercare una strada nuova. La cosa più difficile è correggersi. Tanto difficile che gli esempi sono rarissimi, da tutte le parti.

Che sia stato poco rilevante il tempo, successivo al '79, della autocorrezione o, come si dice, della `svolta', Rossanda lo pensa da sinistra ma non è la sola a pensarlo. Fassino definisce quella del compromesso storico «l'ultima strategia politica di Berlinguer degna di questo nome», ripetendo quello che hanno detto dirigenti del medesimo orientamento politico più anziani di lui. Molti esponenti del Pci ultrariformisti che poi diverranno fautori della democrazia dell'alternativa intesa come alternanza furono del tutto contrari - sebbene con la discrezione che si usava allora - alla rottura della solidarietà nazionale sostenuta da Berlinguer. E considerano gli anni successivi alla svolta, come accade a Rossanda, irrilevanti o peggio. Correggersi è veramente difficile.

Ma da dove veniva la politica cui Berlinguer darà il nome di `compromesso storico'? Chiarante (nel numero di dicembre 5) ha già posto in luce l'annuncio di quella politica nel Congresso (1972) che elesse Berlinguer segretario, ha ricordato la posizione anticipatrice di Chiaromonte sulla impossibilità di governare con il 51%, l'origine togliattiana della politica di `unità democratica'. Il dibattito nel gruppo dirigente del Pci da tempo non stava più soltanto - come ritiene Rossanda - tra Ingrao «più interrogato dai cambiamenti» e Amendola che «puntava alla unificazione con il Psi». Si era venuta formando un'altra posizione che convincerà alla fine la maggioranza del gruppo dirigente, una posizione nutrita fortemente della memoria dei governi unitari successivi alla Liberazione, troncati nel '47 dalla guerra fredda. La linea - non nuova - dell'incontro tra socialisti, comunisti e cattolici per `rinnovare e risanare' l'Italia fu ripresa in quegli anni e aggiornata con il contributo decisivo di due dirigenti poco citati, Agostino Novella e Paolo Bufalini, che ebbero allora un peso rilevante nella posizione di centro del Partito. Novella era stato il più rigoroso interprete - in polemica con Amendola - proprio della politica togliattiana di unità democratica nella Resistenza, aveva diretto la Cgil fino al distacco dall'organizzazione sindacale mondiale di osservanza sovietica e sarà poi uno dei promotori della segreteria Berlinguer. Come Bufalini, cresciuto alla scuola di Togliatti, che aveva dato la sua impronta al partito siciliano e romano e sarà uno dei più attenti, da una posizione pienamente laica, ai rapporti con la Chiesa.

Ma sulla linea dell'incontro con i cattolici non mancò il contributo dei dirigenti considerati più a sinistra, anche se essi sottolineavano in particolare misura le novità rappresentate dai cattolici di avanguardia e dalla sinistra democristiana e con questi si ponevano in relazione, piuttosto che con la ufficialità vaticana. Fecero epoca i dibattiti di Ingrao con gli esponenti dei `basisti' che venivano allargando il loro spazio nella direzione della Dc. Fu dunque lunga la preparazione di quella nuova politica `unitaria', piena di ambiguità. Da un lato veniva concepita in contrapposizione con le suggestioni - soprattutto esterne - di `alternativa di sinistra' considerate irrealistiche e quasi pericolose. Ma c'era anche l'idea di un nuovo `blocco storico' trasformatore, di cui la base cattolica doveva essere parte.

Non fu, però, cosa da poco, nel linguaggio criptico e nella liturgia di allora, l'aggiunta dell'aggettivo `storico' da parte di Berlinguer alla parola `compromesso', la cui necessità era ben presente nella tradizione comunista internazionale e interna (da Brest Litovsk in poi 6). Quell'aggettivo nasceva dall'idea non solo che il `risanamento e rinnovamento' del Paese avesse bisogno di una concordia nazionale ma che l'attenuazione del contrasto di classe «per evitare la comune rovina delle classi in lotta» dovesse accompagnarsi a forme di mutamento nei rapporti tra lavoro e capitale di cui lo statuto dei diritti era stato una premessa considerata insufficiente e dovesse comportare un inizio di modificazione nel tipo di sviluppo attraverso un più forte sostegno ai consumi pubblici rispetto a quelli privati.

Berlinguer rifiutò sempre, fino alla fine, di considerare i governi di solidarietà nazionale come la traduzione del compromesso storico. Vi era, in questo, un po' del carattere della persona, fatto anche di timidezza e di ostinazione, e dunque una difficoltà reale di vedere la connessione tra le premesse e le conseguenze, tra le intenzioni e la realtà. Ma vi era anche qualcosa di vero, nel senso che non fu certo una libera scelta, una libera applicazione del compromesso storico quella che portò a governi composti solo da democristiani, sostenuti dall'esterno da tutta la sinistra (giunta ad essere il 50 per cento del Parlamento). Ed era vero che la traduzione concreta in termini di linea governativa, anche da parte dei dirigenti comunisti più integrati - sebbene dall'esterno - in quella esperienza, fu dettata da una linea scarsamente o per nulla distinguibile dal passato. Si vide alla fine il `risanamento' ma solo dei conti pubblici e, come sempre, essenzialmente a spese del lavoro. Di `rinnovamento' non vi fu traccia neppure per timidi cenni. Dal punto di vista di una forza anche solo progressista fu un fallimento indubbio.

Ma Rossanda non giudica quel tanto di distanza che ci fu tra progetto e concreto svolgimento della vicenda dei governi detti di solidarietà nazionale, sebbene è sul fallimento della esperienza di governo che si valuta il fallimento del progetto. Sicché ricade su Berlinguer anche la responsabilità che fu di altri e comunque dell'insieme. Non è un metodo giusto quello di trascurare le condizioni in cui si svolge un certo fatto per poterlo giudicare. Uno storico stimato come Paul Ginzborg - il quale pure dava un giudizio negativo sulla nascita dei governi di solidarietà nazionale - è venuto, poi, alla conclusione che era difficile fare diversamente nelle condizioni date.

Tuttavia il giudizio di fatto, che dovrebbe guardare alle condizioni concrete, non elimina la valutazione di principio. Ed è su questo soprattutto che Rossanda interviene: quella idea di compromesso storico del 1973 fu motivata dalla falsa previsione di involuzioni fascistiche che non vi furono, volle essere un accantonamento della lotta di classe da parte dei comunisti in cambio della rinuncia della Dc ad alleanze a destra e nella speranza di un rinnovamento democristiano che non vi fu, fu un brutto episodio di `autonomia del politico' contro i movimenti e le lotte sociali, fu la interpretazione del primato della politica come «primato degli accordi ed equilibri sulla scena politica» rispetto alla politica intesa «come governo della costituzione materiale del Paese», andò addirittura contro non solo le lotte nelle fabbriche ma «contro la Cgil di Lama dei primi anni '70». In più Berlinguer quando si dichiarò più sicuro sotto l'ombrello della Nato o aveva - sempre secondo Rossanda - ancora il timore di un «pericolo sovietico sempre più improbabile» oppure voleva esprimere «il riconoscimento che il capitalismo aveva vinto e doveva vincere». Il che costituisce, secondo Rossana, anche il filo di continuità fra la vicenda di Berlinguer e quella dei Ds.

Personalmente, negli anni della solidarietà nazionale, cercai di fare quel che potevo - forse perché ero il responsabile delle politiche per la cultura - perché ci si accorgesse e si dialogasse con i movimenti e poi per aiutare Berlinguer a portare fuori il Pci dalla esperienza della solidarietà nazionale. Sono ovviamente responsabile come tutti gli altri delle scelte della direzione di allora. Ma come si vedrà poi, e fino a oggi, il mio orientamento personale non era uguale a quello di altri. Dunque, non mi considero in alcun modo un difensore del compromesso storico. Ma l'argomentazione di Rossanda mi pare che vada decisamente oltre il segno. Se fosse compiutamente fondata la sua analisi sulla negazione della lotta di classe, della lotta sindacale, e persino della Cgil di Lama, Berlinguer non avrebbe voluto e promosso la rottura davanti alla manifesta impossibilità di risultati innovativi. Se fosse stato convinto di una linea di abbandono del conflitto sociale, che pure esisteva nel Pci, mai egli sarebbe andato - per citare un fatto che volle essere emblematico - davanti ai cancelli della Fiat. Ma Rossanda anche su questo non si impietosisce: quando ci va è ormai tardi. Più che un'analisi, si rischia la requisitoria. Come nel romanzo popolare ottocentesco dove l'implacabile commissario perseguita, in nome della legge, il povero galeotto ormai redento e dedito alle opere di bene.

A me pare che scegliendo una visione parziale non si fa giustizia alla persona ma soprattutto non si legge la realtà. Berlinguer non è solo quello dell'ultima fase della sua segreteria, ma non è neppure solo quello della prima fase: dal punto di vista del tempo (7 anni e 5 anni) ma soprattutto per l'importanza dell'impresa. Il vero gesto di rottura della tradizione - che infatti la parte più conservatrice del Pci non gli ha mai perdonato da vivo come da morto - è proprio il rigetto della solidarietà nazionale o, se si vuole dire così, l'abbandono del compromesso storico. Esso era l'ultima propaggine di quella linea della grande unità che derivava dal rifiuto di abbandonare la `diversità' dei comunisti italiani in termini di collocazione internazionale (che faceva cadere su di loro l'interdizione al governo). Ma derivava anche dall'idea che solo con un `fronte largo', anzi larghissimo, si potesse avviare qualche riforma consistente. Solo una ormai scarsa conoscenza della realtà poteva - però - far supporre che si potesse ricominciare sulla stessa linea di trent'anni prima.

Ha ragione Rossanda che c'è una continuità tra la linea dell'unità democratica e i Ds: per esempio, nel tentativo di D'Alema per il mai nato governo Maccanico di unità nazionale e poi nel progetto fallito della Bicamerale con Berlusconi, entrambi presentati come se fossero in continuità con la politica togliattiana. Ma questa presunta continuità senza la grande unità antifascista (e senza l'Urss) si ripresentava stralunata e spaesata, fuori dal tempo e dallo spazio, come una scadente imitazione rapidamente messa fuori commercio. Bisogna però ricordare che per produrre questa imitazione si era dovuto provvedere, appunto, a ignorare, a irridere, a considerare poco importante la svolta che Berlinguer operò chiudendo con tutta la lunga tradizione che aveva avuto nella Resistenza il suo punto più alto.

La rottura con la tradizione unitaria avviene assieme con lo strappo definitivo dall'Urss. Ma anche questo era in ritardo e non abbastanza forte, secondo Rossanda. Dopo la morte di Togliatti - «che arrivò a votar contro la proposta di Conferenza internazionale degli 81 partiti comunisti» - il Pci si ferma sulla strada indicata nel memoriale di Yalta, che «prendeva le distanze» dall'Urss. Anzi Berlinguer «continuò a ricevere dall'Urss finanziamenti più compromettenti che decisivi per il bilancio del partito». E lasciò il partito ancora forte ma per poco, perché lo lasciò disarmato rispetto al crollo dell'89.

Spiace doverlo constatare ma i fatti non sono questi. Il memoriale lasciato da Togliatti alla sua morte a Yalta era segreto, destinato ad una discussione interna con il gruppo dirigente sovietico. È Longo che decide di pubblicarlo, prendendo le distanze. È Longo che si oppone alla Conferenza dei partiti comunisti per anni e, quando i sovietici la convocano ad ogni costo, vi manda Berlinguer, vice segretario, con la decisione di non votare nessuno dei documenti presentati. E Berlinguer in quella sede dichiarò (eravamo nel '69) che i comunisti non potevano concepire socialismo senza pluralismo politico, sollevando un caso internazionale clamoroso.

È Berlinguer segretario, non altri - come ha testimoniato in un suo libro Cervetti 7, allora organizzatore e amministratore del Pci - che ruppe nel '75 con i finanziamenti sovietici. Ed è ancora Berlinguer che - prima della Polonia e dell'Afganistan e dello `strappo', che sarà nell'80 - va a Mosca (era il '77) a fare una sorta di scomunica alla rovescia, proclamando il «valore universale della democrazia». Fu di nuovo un caso mondiale. Ugo la Malfa ebbe a dichiarare che bisognava smettere di chiedere al Pci altre prove di democraticità.

Si poteva, si doveva fare ancora di più? Senz'altro. Fino alla fine si sperò nella riformabilità dell'Unione Sovietica, ma non per colpa di Berlinguer che aveva scritto che non è socialismo quello che non garantisce neppure il grano per il pane. Si sperò perché, dopo la morte di Berlinguer, vennero Gorbaciov, la perestroika, la glasnost. Troppo comodo, semmai, per i dirigenti comunisti che sono rimasti - tra cui io stesso - nascondersi dietro Berlinguer perché non comprendemmo che Gorbaciov non ce l'avrebbe fatta, che la riforma sarebbe fallita o che l'avrebbero fatta fallire.

Ma se è comprensibile che da destra si rimproveri a Berlinguer di non aver concepito la rottura con l'Urss come il salto pieno dentro la accettazione del sistema dato, non mi sembra né giusto né utile, da sinistra, rimuovere quello che fu secondo me - ma credo di non sbagliare - il suo vero assillo finale. Ricostruire le fondamenta autonome di una sinistra capace di critica del sistema e di proposta riformatrice atta al governo. Anche a questo sforzo finale per distinguere il proprio partito da un sistema politico marcio e da una sinistra che sbandava nel ministerialismo si deve il mantenimento della forza del Pci, che è andata oltre la sua scomparsa: perché è su quella eredità che ancora vivono in larga misura le sinistre di oggi.

Certo, ricostruire dalle fondamenta implica un percorso difficile che non mi pare che qualcuno abbia compiuto, e che è ancora tutto davanti a noi. Fu uno sforzo complicato, per chi era cresciuto per tutta la giovinezza a fianco di Togliatti, intendere le correnti nuove che percorrevano il mondo e che il movimento operaio comunista e socialista non aveva neppure immaginato: dal femminismo della differenza all'ecologismo, al nuovo pacifismo, ai temi proposti dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Sono questioni che è difficile ancora oggi, a sinistra, maneggiare consapevolmente. Certo che va riscoperto lo scontro di classe. Ma non ci si può illudere che basta riprendere il discorso interrotto da quelli che potettero essere gli errori del Pci negli anni settanta. Non ci sarà niente da fare se non leggeremo il contrasto tra le classi dentro la nuova composizione sociale in una realtà globalmente trasformata e in connessione con le contraddizioni, i bisogni, i desideri nuovi. La crisi non è solo da una parte. Se la sinistra moderata sbanda al centro, quella alternativa non riesce a ricomporre la propria diaspora, il che è più grave, perché nega le speranze.

Penso che una ricerca storicamente fondata sul passato - senza preconcetti e senza rimozioni - possa aiutare a capire che cosa abbia portato il nostro paese nelle mani di Berlusconi e la sinistra italiana ed europea sino al punto in cui siamo oggi, tra la deriva moderata e la fragilità degli alternativi.

Non ho scritto questo articolo per tessere le lodi di un compagno scomparso che ha fatto anch'egli i suoi errori assieme a tante cose giuste. Ma perché, per guardare avanti, mi sembra indispensabile sfuggire all'esercizio consolatorio di dare tutta la colpa a chi non c'è più, guardando un po' di più dentro noi stessi.

note:

1 Rossana Rossanda, Discutendo di Enrico Berlinguer, «la rivista del manifesto», n. 44, novembre 2003, pp. 60-62.

2 Aldo Tortorella, I nipotini di Padre Bettino, «la rivista del manifesto», n. 43, ottobre 2003, pp. 7-11.

3 Cfr. Piero Fassino, Per passione, Rizzoli 2003.

4 Appunti sulla fine del Pci, su «Critica Marxista», 1998, n.5.

5 Giuseppe Chiarante, Alle origini del compromesso storico, «la rivista del manifesto», n. 45, dicembre 2003, pp. 52-55.

6 Brest Litovsk è il nome del luogo ove fu sottoscritta dall'appena costituito governo sovietico, ai tempi di Lenin, l'armistizio e poi la pace separata nel 1918 con la Germania. In quel trattato la Russia cedeva molti territori alla Germania.

7 Gianni Cervetti, L'oro di Mosca, Baldini e Castoldi-Dalai 19992.

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