Sta per terminare l'anno di celebrazioni del ventesimo anniversario della scomparsa di Enrico Berlinguer, nel corso delle quali ha rifatto capolino l'ambigua categoria della modernità. Nello stesso tempo è apparso che quanto più sono grandi il rispetto e la venerazione dei cittadini italiani per la figura del grande leader scomparso, tanto più una ristretta storiografia memorialista, a partire curiosamente, ma non tanto, da quella dei massimi dirigenti dei Ds, si è dilettata in una revisione negativa comparata ad una rivalutazione di Craxi. I termini del paragone sono ancora una volta la contrapposizione tra modernità e conservazione.
In ogni uomo politico si possono mettere in evidenza le ombre e le luci. Tuttavia dinnanzi a quella sorta di revisionismo grossolano al quale abbiamo assistito negli ultimi tempi sento l'esigenza di mettere in discussione due capisaldi della critica nei confronti di Berlinguer: la scarsa modernità e il moralismo.
Una analisi attenta del pensiero politico del Nostro ci permette di ritornare sulla distinzione tra modernità e innovazione.
Non c'è dubbio che in Berlinguer ci fosse e si facesse sentire una visione critica dei processi di modernizzazione, mossa dalla consapevolezza che nel cammino stesso del progresso umano ci possono essere delle perdite secche, in termini di valori e acquisizioni del passato, che occorre recuperare. E non c'è nemmeno dubbio che, sotto questo profilo, fosse molto attento ai rischi che determinate forme di modernizzazione potessero travolgere tutto e tutti. Anche l'applicazione della più sofisticata tecnologia alla guerra è una forma di modernizzazione, alla quale non si deve necessariamente applaudire.
Un'altra prova di modernità é lo yuppismo, la spregiudicatezza negli affari e nella politica misurata con i valori del mercato, il cinismo che ha come unico metro di giudizio il risultato immediato, la competizione per la competizione, l'esaltazione acritica della potenza del danaro, in una parola la modernità del rampantismo.
Berlinguer aborriva quel tipo di rampantismo che all'epoca contraddistingueva, persino nei modi e negli atteggiamenti, Craxi e il gruppo di giovani leoni che ruotavano attorno a lui. E fu proprio questo tipo di avversione ad essere erroneamente scambiata, o meglio, contrabbandata, per antisocialismo viscerale. Naturalmente lui si contrapponeva a tutto quel brulicare di una modernità vacua e insieme prevaricatrice, prepotente, chiassosa e travolgente. Cercava di combatterla, a volte con strumenti inadeguati.
Tutto ciò, tuttavia, non gli precludeva la via della ricerca, l'interesse per l'inedito, una indubbia curiosità per le nuove domande che sorgevano dal mondo femminile e da quello giovanile. In sostanza era decisamente aperto all'innovazione.
Come negare che fu un innovatore?
Nella politica internazionale fu un europeista convinto, lanciò l'idea di un' Europa né antiamericana né antisovietica; si fece paladino dell'eurocomunismo, ponendo al centro di questa idea il tema della priorità assoluta della libertà come valore universale che doveva essere rispettato al di sopra delle decisioni a maggioranza della democrazia; arrivò ad invocare l'ombrello della Nato contro le tendenze aggressive dell'Urss; chiese la fine dei blocchi contrapposti e dichiarò, con il famoso strappo, la fine della spinta propulsiva della rivoluzione sovietica.
In sostanza, come ho altre volte detto, portò la cultura comunista fino al suo limite possibile, arrivò a lambire il confine più avanzato che sia mai stato avvicinato da un partito comunista, pur rimanendo all'interno della tradizione comunista, nella speranza, che si rivelerà sbagliata, della riformabilità dei cosiddetti paesi socialisti.
Certo, non andò oltre quel confine, che comportava una certa, per quanto critica, solidarietà di campo.
Ciò avverrà in seguito con la svolta: ma chi di noi avrebbe in quel periodo fatto la svolta?
Berlinguer tuttavia pose molte premesse importanti, che proprio grazie al loro carattere innovativo, richiedevano un successivo salto qualitativo. Lo reclamavano, pena la mortificazione di tutta l'innovazione precedente. E ciò indipendentemente dalle polemiche, a volte legittime a volte capziose, sui tempi e sui modi.
Voglio però ricordare che Berlinguer pensava, sia pure in astratto, alla necessità di cambiare nome. Ne parlammo, mi ricordo, quando - allora io ero segretario regionale del Pci siciliano - venne in Sicilia durante la campagna elettorale del referendum su divorzio. Mi disse chiaramente: quello che abbiamo fatto in Italia, i mutamenti che abbiamo introdotto nella nostra cultura politica, sono tali per cui dovremmo cambiare nome al partito. E ricordo anche la sua risposta a De Martino, il quale chiese a Berlinguer di fare con lui un nuovo grande partito unificato e Berlinguer non balzò sulla sedia scandalizzato. Rispose semplicemente: non posso farlo ora perché in Urss c'è Breznev e avremmo una frattura enorme in Italia; i sovietici organizzerebbero una fortissima scissione.
Questi miei ricordi, che risalgono al lontano 1975, dimostrano che le spie della Cia in casa Tato non hanno tanto rivelato l'autonomia critica di Berlinguer nei confronti di Mosca, cosa a noi nota da tempo, ma piuttosto, ed è grave che nessun commentatore l'abbia sottolineato con sufficiente forza, il fatto che l'Italia si trovasse in una situazione di sovranità limitata, al punto che una grande potenza straniera poteva permettersi di organizzare sul nostro territorio dei veri e propri crimini contro la privacy.
L'altro elemento di modernità nel senso dell'innovazione furono le posizioni di Berlinguer sull'austerità. Apriti cielo: quelle posizioni suscitarono un vero e proprio marasma in gran parte della intellettualità italiana che incominciò a gridare al moralismo in sintonia con il dileggio dei craxiani.
In realtà tutto quello starnazzare fu dettato, in parte, da un malinteso e, in parte, da una risibile e sconcertante miopia culturale.
A parte la considerazione che saranno poi necessari ben dieci anni per risanare le casse dello Stato dilapidate dai dileggiatori dell'austerità, se facciamo le somme dei risultati raggiunti da Craxi e le esigenze attuali delle nostre economie, chiediamoci: chi è stato più al passo con i tempi?
Sicuramente ci fu una visione dell'austerità che io stesso non condivisi. Ma se è vero che l'austerità fu presentata anche con alcune esemplificazioni di sapore moralistico ed accentuazioni, soprattutto per opera di alcuni zelanti interpreti, che potevano assomigliare alle politiche di risanamento che finivano per fare pagare i costi maggiori ai più poveri facendoli ricadere principalmente sulle spalle dei lavoratori, l'ispirazione generale dell'intuizione berlingueriana era ben altra cosa.
Berlinguer capì molti anni prima che sorgessero i movimenti no-global che il mondo si trovava sull'orlo di un abisso. Che se si credeva di esportare nel resto del mondo il modo di produrre - e di saccheggiare le risorse energetiche - dei paesi capitalisticamente sviluppati il pianeta poteva saltare in aria, e che nel rapporto sempre più problematico tra uomo e natura si annidava il rischio di una vera e propria catastrofe.
Di lì nacque la sua proposta di cambiare il modo di produrre e di consumare.
Adesso tutti parliamo di sviluppo sostenibile, anche se siamo ancora molto lontani dall'aver assunto il tema del rapporto uomo-natura e della qualità dello sviluppo come il fulcro di tutte le politiche sociali ed economiche.
Allora il “passatista” Berlinguer era, molto più di Craxi, in sintonia con alcuni grandi della socialdemocrazia europea quali la signora Brutdland, Otto Palme e Willy Brandt.
Il rampantismo dominante non solo irrideva a tutto questo, ma si scagliava con veemenza contro il preteso moralismo del segretario generale del Pci.
Non escludo che ci siano state in lui cadute moraliste che riguardavano fondamentalmente i suoi gusti e comportamenti personali. Ma tali atteggiamenti non possono, in alcun modo, fare aggio sulle posizioni politiche assunte a proposito della corruzione politica dilagante. Èstato un suo merito innegabile quello di aver anticipato di almeno quindici anni la stagione di “mani pulite”. Si può solo dire che se le forze politiche dell'epoca gli avessero dato retta avrebbe fatto strada, anziché la soluzione giudiziaria, quella politica.
Considero da un punto di vista strettamente storiografico molto stravagante associare la questione morale, sollevata da Berlinguer, alla mera esigenza della difesa della identità del proprio partito attraverso la diversità. Ci dovrebbe soccorrere il metodo delle analisi differenziate per cogliere insieme il rapporto e la differenza tra i due temi. Che l'affermazione del Pci come partito dalle mani pulite abbia rappresentato uno dei connotati fondamentali della non sempre felice proclamazione della propria diversità, è un dato indubbio, tuttavia non esaustivo dell'assoluta autonomia della questione morale dai problemi del partito. Si dimentica che la tematica relativa alla crisi fiscale degli Stati incominciava ad assumere una valenza internazionale strettamente legata alla corruzione della politica. E anche in questo Berlinguer era al passo con i tempi.
Sollevare la questione morale è stato e continua ad essere un merito che non ha nulla a che vedere con il moralismo e con il cosiddetto giustizialismo, in quanto coinvolge tutti gli aspetti fondamentali della vita economica e sociale del paese e investe gli interessi generali e particolari dei cittadini, di tutti i cittadini di una nazione. E' tema centrale della ricostruzione della democrazia, oggi sempre più manipolata e pilotata dalla corruzione. Nello stesso tempo chiama in causa la questione complessa e delicata della riforma della politica e dello stesso sistema politico, su cui, per la verità, Berlinguer si mostrò molto esitante.
Ma come si vede, nella valutazione complessiva del suo impegno politico e civile, il piatto della bilancia pende decisamente dalla parte dell'innovazione.
Ed è un vero peccato che proprio alcuni di coloro che avrebbero dovuto essere i suoi più stretti eredi abbiano, in questo ventennale, perso l'occasione di rendergli giustizia secondo verità.