loader
menu
© 2024 Eddyburg
Luciana Castellina
Berlinguer, la grande banalizzazione di un comunista scomodo
11 Giugno 2014
Enrico Berlinguer
«Banalizzare la sua figura è la peggior sorte che gli si possa riservare. Berlinguer non cercava il consenso facile né era privo di spigoli. Le sue scelte furono molto contrastate, dentro e fuori il partito. Se ne esalta la memoria per rivendicare una continuità che non c’è».

«Banalizzare la sua figura è la peggior sorte che gli si possa riservare. Berlinguer non cercava il consenso facile né era privo di spigoli. Le sue scelte furono molto contrastate, dentro e fuori il partito. Se ne esalta la memoria per rivendicare una continuità che non c’è».

Il manifesto, 11 giugno 2014Nei giorni scorsi ho scritto anche io sul sup­ple­mento che l’Unità ha dedi­cato a Enrico Ber­lin­guer nel tren­ten­nale della morte. Do atto al quo­ti­diano un tempo “comu­ni­sta” di aver ope­rato un’apertura con­si­de­re­vole per­ché, come è ovvio, era impli­cito che avrei par­lato anche dello scon­tro che, come gruppo de il mani­fe­sto, avemmo con l’allora segre­ta­rio del Pci quando fu decre­tata la nostra radia­zione dal par­tito. Tempi oggi cam­biati rispetto a quelli in cui lo stesso gior­nale era arri­vato a pub­bli­care un arti­colo, a noi rivolto, inti­to­lato «Chi vi paga?», in cui si espri­meva il sospetto che si trat­tasse della Con­fa­gri­col­tori. (Chissà per­ché pro­prio la Confagricoltori).

E tut­ta­via, come mi è capi­tato in que­sti ultimi tempi di ripe­tere, quasi quasi rim­piango quelli pur duris­simi della nostra radia­zione: per­ché lo scon­tro aspris­simo pro­dusse un trauma in tutto il par­tito, se ne discusse a tutti i livelli, si aprì una rifles­sione in tutta l’opinione pub­blica della sinistra.

Oggi si può dire qual­siasi cosa che, vista la povertà del dibat­tito poli­tico, non suscita, non dico pas­sioni, ma nem­meno inte­resse. (Stento a defi­nirla “libertà d’espressione”).

Que­sto sta infatti acca­dendo con l’amplissimo fio­ri­le­gio di pub­bli­ca­zioni dedi­cate alla memo­ria di Enrico Ber­lin­guer: che susci­tano, come è giu­sto e natu­rale, grandi emo­zioni e nostal­gie — soprat­tutto quando si rive­dono le imma­gini strug­genti del dolore pro­fondo e sin­cero di un intero popolo al suo fune­rale — ma non con­tri­bui­scono affatto a chia­rire il pro­filo poli­tico di Ber­lin­guer. Un gio­vane nato negli ultimi decenni potrà desu­merne che si trat­tava solo di un uomo one­sto capace di susci­tare affetto e con­senso. Certo non è poco di que­sti tempi, ma pochis­simo per far capire dav­vero chi era.

Per­ché Ber­lin­guer è stato un diri­gente per nulla privo di spi­goli, che non ha con­cesso nulla alla ricerca di un con­senso faci­lone, non par­liamo delle sue capa­cità comu­ni­ca­tive: era il con­tra­rio dello sho­w­man. E che ha ope­rato scelte spesso con­tra­state e non solo dall’esterno del Pci.

Bana­liz­zarlo è la peg­gior sorte che gli si potesse riser­vare. (Avvenne del resto anche subito dopo la sua morte, con la pub­bli­ca­zione di un numero spe­ciale a lui dedi­cato di “Cri­tica Mar­xi­sta”, dove, se non sba­glio, fu solo Ser­gio Gara­vini a ricor­dare espli­ci­ta­mente que­sti contrasti.)

Non un’operazione inno­cente: serve a far cre­dere che anche quanto si fa oggi sia in defi­ni­tiva in con­ti­nuità con il suo pen­siero. Salvo il fatto che era un po’ troppo bac­chet­tone, un po’ troppo anco­rato al pas­sato, lento nel per­ce­pire quanto aveva invece colto Bet­tino Craxi: che il mondo era cam­biato e per essere con­tem­po­ra­nei biso­gnava spo­sare la moder­nità senza agget­tivi che il sistema proponeva.

(Per­sino il più quo­tato can­di­dato al pre­mio Strega, Fran­ce­sco Pic­colo con il suo “Tutti”, per­corre la stessa strada: ama Ber­lin­guer fino ad iden­ti­fi­carsi con lui, ma lo rende una figura pate­tica, un vec­chio buon nonno).

Luigi Pintor scrisse «E’ morto un buon comunista»

Il nostro giu­di­zio su Ber­lin­guer, per noi che siamo stati radiati, è molto più severo, e insieme molto più posi­tivo. Al momento della radia­zione i punti del con­tra­sto furono impor­tanti. In breve:la sua sor­dità rispetto ai movi­menti emer­genti, peg­gio: il suo sospetto verso il ’68, che privò il Pci della forza che veniva da una nuova gene­ra­zione che aveva cap­tato la valenza delle nuove con­trad­di­zioni del capi­ta­li­smo; l’insufficienza di un sistema tutto fon­dato sulla demo­cra­zia dele­gata e la neces­sità di intrec­ciarla con nuovi orga­ni­smi di rap­pre­sen­tanza diretta; la cri­tica al comu­ni­smo sovie­tico e alla coe­si­stenza fra le due grandi potenze mon­diali intesa come stru­mento dello statu quo.(Fu Luigi Longo, com­pa­gno lar­ga­mente e così ingiu­sta­mente dimen­ti­cato, a capire assai di più, e lo ripetè, ina­scol­tato, fin quando non fu defi­ni­ti­va­mente zit­tito dalla malat­tia. In un arti­colo su “Rina­scita” era per­sino arri­vato ad invo­care mag­giore plu­ra­li­smo, in con­tro­ten­denza con la rigida difesa dell’unanimismo invo­cato in nome di un’unità del par­tito già lar­ga­mente fittizia).

Poi venne il com­pro­messo sto­rico, obiet­tivo di lungo periodo, e il governo di unità nazio­nale come pas­sag­gio verso quella meta. Un’ipotesi che ridu­ceva il ben più com­plesso pro­blema del rap­porto col mondo cat­to­lico a quello con la Demo­cra­zia Cri­stiana. Per Gram­sci si era trat­tato della que­stione con­ta­dina, per Togliatti della que­stione demo­cra­tica per arri­vare più tardi alla com­pren­sione che una reli­gio­sità dav­vero sen­tita poteva con­tri­buire a supe­rare l’identificazione bor­ghese di libertà con indi­vi­dua­li­smo (vedi le tesi del 9° Con­gresso del Pci). Stra­na­mente pro­prio Ber­lin­guer, che cercò più di ogni altro un avvi­ci­na­mento alla Dc, aveva sem­pre mani­fe­stato incom­pren­sione per il ben diverso tra­va­glio di un mondo cat­to­lico che non si iden­ti­fi­cava affatto con il par­tito e che, dopo aver emar­gi­nato Dos­setti, aveva assunto il ruolo di pila­stro del neo­ca­pi­ta­li­smo ita­liano. Fu un rim­pro­vero che avan­zammo già ai tempi della Fgci, quando egli mancò di capire, e a trarne con­se­guenze in ter­mini di ini­zia­tiva poli­tica, la crisi pro­fonda della gio­ventù cat­to­lica per effetto di quella scelta e che portò alle dimis­sioni di ben due pre­si­denti della Giac e molti ade­renti alla Fuci a con­fluire via via nel Pci.

Non sono pochi né di poco conto, dun­que, i dis­sensi che ci hanno oppo­sto. E però c’è poi quanto accadde a par­tire dalla fine dei ’70. Su que­sto non fummo tutti con­cordi e il dibat­tito pro­se­guì a lungo ancora negli anni 2000 sulle colonne de “La Rivi­sta del Mani­fe­sto”, quella che ripren­demmo a pub­bli­care gra­zie all’incontro con gli ex ingra­iani che nel 1969 non ave­vano seguito la nostra scelta e al rein­con­tro fra tutti noi mani­fe­stini, fra cui il rap­porto si era incri­nato nel 1978, col distacco fra il Pdup e la reda­zione del giornale.

Per noi del Pdup si trattò di una vera svolta, la “seconda svolta di Salerno” fu defi­nita, per­ché prese corpo con un discorso di Enrico Ber­lin­guer ad un Comi­tato cen­trale d’emergenza che si tenne in quella città subito dopo il ter­re­moto dell’Irpinia; e dopo che nelle ele­zioni del ’79 il Pci aveva perso il 4% dei voti. In realtà il prezzo pagato alla poli­tica dell’unità nazio­nale era stato ben più pesante di quel pugno di voti: il par­tito stesso ne era uscito fatal­mente dete­rio­rato per effetto della pro­gres­siva iden­ti­fi­ca­zione con il sistema dei poteri locali.

La svolta, di nuovo molto sche­ma­ti­ca­mente, con­si­stette soprattutto:
- nell’abbandono del com­pro­messo sto­rico e nella pro­po­sta di alternativa;
la aperta pole­mica con la linea adot­tata dalla Cgil di Lama (e una buona parte della dire­zione del Pci che l’appoggiava), che lo indusse a recarsi ai can­celli della Fiat a riaf­fer­mare il dovere di rap­pre­sen­tanza della classe ope­raia del Pci, e dun­que la pro­po­sta di refe­ren­dum sulla scala mobile azzop­pata dall’accordo detto di San Valen­tino fra sin­da­cato e governo Craxi;
- la rot­tura con l’Urss brez­ne­viana, certo fatal­mente tar­diva ma che con quella frase «è ces­sata la spinta pro­pul­siva della rivo­lu­zione di otto­bre» voleva dire una cosa suc­ces­si­va­mente negata: che era comun­que bene che quella rivo­lu­zione ci fosse stata, anche se era andata a finire male;
- il suo soste­gno al movi­mento paci­fi­sta, che si accom­pa­gnò al suo discorso sulla pos­si­bi­lità per l’Europa di una terza via, dun­que di un auto­no­mia dai due modelli, così come pur fra molte incer­tezze emer­geva anche nel dibat­tito della sini­stra social­de­mo­cra­tica europea;
- il suo discorso sull’austerità, che non voleva dire mona­cale rinun­cia ai pia­ceri della vita (come fu inter­pre­tata), né cedi­mento alle richie­ste padro­nali di “auste­rity”, ma assun­zione del moder­nis­simo pro­blema di un nuovo modello di sviluppo;
e, infine, l’intervista sulla cor­ru­zione, che fu in realtà la denun­cia di una ormai gra­vis­sima crisi della democrazia.

Molti, anche fra le nostre fila, Ros­sana per esem­pio, di que­sto pas­sag­gio det­tero un giu­di­zio più severo, quelli del Pdup vi fon­da­rono invece il rein­con­tro con Ber­lin­guer, nella fase della più pro­fonda aggres­sione dell’anticomunismo cra­xiano. Fu lui stesso a pro­porci di entrare nel Pci, venendo pochi mesi prima di morire al nostro con­gresso a Milano, forse anche per­ché pur essendo noi un pic­colo par­tito ave­vamo qual­che migliaio di qua­dri capaci che pote­vano aiu­tarlo a rom­pere l’isolamento in cui si era tro­vato nel suo stesso par­tito. Noi accet­tammo: non si tratta di un rien­tro – disse Magri al Con­gresso in cui venne presa la deci­sine — ma un rein­con­tro, una tappa del pro­cesso che ave­vamo ipo­tiz­zato fin dalla nascita de “Il Mani­fe­sto”: aprire una dia­let­tica fra movi­mento ope­raio tra­di­zio­nale e nuovi movimenti.

Credo sia stato giu­sto farlo, anche se la improv­visa scom­parsa del segre­ta­rio del Pci tagliò le ali a quella pro­spet­tiva. Altri com­pa­gni, la mag­gio­ranza della reda­zione del gior­nale, non seguì quella scelta e ebbero ragione sul fatto che il Pci che ritro­vammo non era forse più riformabile.

“E’ morto un buon comu­ni­sta” – inti­tolò il giorno dopo la morte di Ber­lin­guer il mani­fe­sto. E Luigi scrisse, affranto, nel suo edi­to­riale del 12 giu­gno che la sua morte «era una tra­ge­dia poli­tica», per via «dei grandi rischi che la demo­cra­zia ita­liana sta cor­rendo». Il titolo diceva: «Caduto in bat­ta­glia», il rico­no­sci­mento della durezza dello scon­tro in cui in quei suoi ultimi anni di vita era impe­gnato, uno scon­tro in cui, «lui che, per sua natura così pru­dente, ha tro­vato accenti estremi per espri­mere i suoi con­vin­ci­menti e susci­tare ener­gie capaci di rove­sciare l’andamento delle cose». Fino a riven­di­care orgo­glio­sa­mente “la diver­sità” dei comu­ni­sti: non per super­bia o arro­ganza, ma per sot­to­li­neare che quel che li distin­gueva era un di più di impe­gno, di mora­lità, di dispo­si­zione al sacri­fi­cio, in nome della lotta per una società non sem­pli­ce­mente “aggiu­stata”, ma radi­cal­mente diversa.

Delle frasi pro­nun­ciate in que­gli ultimi anni da Enrico vor­rei ricor­darne soprat­tutto una, che oggi mi pare essen­ziale: «Non c’è fan­ta­sia, inven­zione o rin­no­va­mento, se si sman­tella quello che vi è alle spalle».

Per finire, la memo­ria di una bat­tuta di Lucio: «Pen­sate la sfiga dei comu­ni­sti, muo­iono tutti – Gram­sci, Togliatti, Ber­lin­guer, Andro­pov – pro­prio quando diven­tano più intelligenti».

ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg