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Luigi Piccioni
Bergoglio e l’ambiente: la ripresa di un Concilio incompiuto
28 Giugno 2015
Invertire la rotta
Una interessante lettura ambientalista dell'enciclica di papa Francesco. La ricostruzione storica di un tentativo di affrontare l'argomento, con l'apporto della cultura ecologista italiana, nel periodo «iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla».

Una interessante lettura ambientalista dell'enciclica di papa Francesco. La ricostruzione storica di un tentativo di affrontare l'argomento, con l'apporto della cultura ecologista italiana, nel periodo «iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla».

Il 18 giugno 2015 la Santa Sede ha reso ufficialmente noto un documento atteso da molto tempo: l’enciclica papale, la prima in assoluto, sull’ambiente. Si tratta di un testo che come tutti i documenti di questa rilevanza è destinato ad avere un grande peso nella vita della Chiesa e dei credenti ma che ha anche suscitato grande interesse e vasto consenso nel mondo ambientalista.

Al di là del suo contenuto è la scelta in sé di dedicare all’ambiente un’enciclica a indicare da parte di Bergoglio una volontà di rottura, il desiderio di una discontinuità. Certo, tutto questo non si può dire apertamente: la retorica della Chiesa è infatti sempre sotto il segno della continuità, le sue parole sono volte a esprimere un’unica e immutabile verità che parla via via il linguaggio dei tempi. E, come in tutti i grandi documenti vaticani, anche in questo caso abbondano le citazioni di testi precedenti (da San Francesco e dalla Bibbia fino a Giovanni XXIII e ai più recenti scritti di Wojtyla e di Ratzinger), a indicare l’eterna presenza - nel messaggio cristiano - di ciò che ora viene detto solo in modo nuovo e forse un poco più esplicito, consapevole e articolato che in passato.

Ma se la Chiesa cattolica coltiva questa costante premura per la continuità, per un eterno che essa disvela via via in forme storiche, chi osserva il passato in modo laico sa bene che nella chiesa le discontinuità e i conflitti non sono mai mancati. Al contrario, gli ultimi sessant’anni sono stati particolarmente ricchi di conflitti e di cambi di scenario sotto l’impetuosa pressione di un mondo che cambiava a ritmi inediti: ritmi sempre più rapidi ma spesso anche non lineari. E lo storico sa anche che la discontinuità più sorprendente per vastità e audacia è stata nel Concilio Vaticano II, frutto di un contesto storico di una vivacità irripetibile e presto depotenziato. Le aperture del Concilio sono state infatti sottilmente negate già poco dopo la sua chiusura e nei decenni successivi sono state messe lentamente e tacitamente relegate tra le ingenue o pericolose utopie del Novecento.

Gran parte del magistero di Bergoglio riprende al contrario i temi e lo spirito del Concilio anche senza rivendicarlo troppo apertamente. Una rivendicazione del genere significherebbe infatti ammettere l’esistenza di una serie di discontinuità costantemente negate persino da papi come Woytila e Ratzinger che hanno operato attivamente per liquidare molte delle maggiori novità conciliari, soprattutto in campo sociale.

Anche l’enciclica “Laudato sì”, anche se in modo inconsapevole, riprende uno sforzo post-conciliare della Chiesa. Uno sforzo di chinarsi sulla questione ambientale che però era rimasto tuttavia incompiuto, interrotto.

Molti in realtà rivendicano da tempo le progressive aperture di Wojtyla e Ratzinger all’ecologia e lo fa, in nome della continuità, anche Bergoglio. Credo si possa dire che queste aperture siano state delle petizioni di principio rare e timide che non hanno mai impegnato seriamente la Chiesa verso la questione ambientale. Molto diverso è il caso, ormai da mezzo secolo, di altre importanti questioni sociali come la pace, la povertà e i diritti e soprattutto delle questioni riguardanti la vita e la famiglia che costituiscono il nucleo dei cosiddetti “principi non negoziabili”, i soli su cui la Santa Sede chiama i credenti alla mobilitazione attiva.

E’ molto probabile invece che l’enciclica di Bergoglio intenda indicare ai cattolici come al resto del mondo un deciso cambiamento di passo. Accanto al “ritorno” fortemente enfatizzato al centro dell’azione e della parola della Chiesa di temi conciliari come il disarmo, la lotta alla povertà, i diritti umani, ecco insomma “l’arrivo” dell’ecologia, che era la grande assente nella parabola conciliare iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla.

Ma è anche bene ricordare che la sollecitudine per l’ambiente avrebbe potuto appropriatamente stare dentro lo spirito e le preoccupazioni dell’età conciliare e che anzi quella assenza non fu totale. Vi fu infatti una brevissima stagione in cui qualcuno, dentro la Chiesa, tentò di innestare l’ecologia sul tronco conciliare e di fornirle pari dignità rispetto a temi strategici quali la pace, la giustizia sociale, i diritti umani, la democrazia. Questa stagione si chiuse tuttavia molto presto e quel tentativo fallì lasciando incompiuta l’agenda conciliare.

Consapevolmente o meno Bergoglio sta forse oggi tentando di compiere quel passo che allora non riuscì e che anzi fu fatto naufragare. In questo senso, insomma, anche l’enciclica Laudato sì può essere considerata come la riapertura di un cantiere conciliare.

La vicenda del tentato innesto dell’ecologia nell’agenda conciliare è nota soltanto a un pugno di addetti ai lavori e ai pochi protagonisti che ancora sopravvivono; è quindi utile riassumerla rapidamente partendo dall’inizio[1].

Nella discussione e nei documenti elaborati nel corso del Concilio, dall’ottobre del 1962 al dicembre 1965, non fu fatto alcun cenno alla questione ambientale. Erano proprio quelli gli anni in cui per la prima volta l’ecologia iniziava a fare la sua comparsa nel dibattito pubblico - Silent Spring era uscito proprio un mese prima dell’apertura del Concilio - e la Chiesa, che solo con fatica e con molti contrasti interni tentava di captare i principali “segni dei tempi”, non aveva antenne sufficientemente sensibili per capire che anche quello dell’ambiente era un importante “segno dei tempi”. Un segno destinato peraltro a esplodere a livello mondiale di lì a pochissimi anni.

La copiosa documentazione prodotta dai padri conciliari e i fondamentali documenti di poco successivi come l’enciclica Populorum progressio (1967) di Paolo VI non contenevano insomma alcun cenno esplicito né alcun stimolo consapevole riguardo alla tutela dell’ambiente. Vista da questa prospettiva la Chiesa cattolica mostrava di essere in grave ritardo rispetto alla già notevole elaborazione di teologia dell’ambiente proveniente dal protestantesimo statunitense.

Il silenzio dei documenti conciliari non dipendeva tuttavia soltanto dall’incapacità di percepire il sorgere di una problematica nuova come quella ambientale.

Tali documenti, che pure comprendevano e illustravano bene molte delle principali contraddizioni politiche e sociali del mondo moderno, erano infatti largamente permeati del clima di speranza degli anni del dopoguerra, della distensione e della crescita economica e mostravano una sostanziale fiducia nel progresso tecnico e scientifico. Tale fiducia, messa in ombra solo qui e là da qualche considerazione più pessimista e preoccupata, finiva col rinforzare uno degli elementi fondanti di tutto il pensiero cristiano: l’antropocentrismo. La visione, cioè, che la Terra fosse creata per il godimento dell’uomo, immagine di Dio e vertice della Creazione, e che tutt’al più all’uomo spettasse una responsabilità di saggia e rispettosa manutenzione del Creato medesimo.

L’idea che l’uomo, e che soprattutto il moderno progresso scientifico, potesse invece costituire di per sé un elemento profondamente perturbante per l’equilibrio del pianeta – come aveva scritto esattamente un secolo prima George Perkins Marsh – non sfiorò neppure la mente dei padri conciliari.

Va aggiunto però che la Chiesa del Concilio e del dopo-Concilio era troppo sensibile a tutto ciò che travagliava l’esistenza materiale dell’umanità per rimanere totalmente impermeabile alle sollecitazioni politiche e culturali che crescevano di giorno in giorno sul fronte dell’ambiente.

Fu così che verso la fine degli anni Sessanta finirono col convergere due piccoli rivoli usciti dal Concilio e che andavano nella direzione di una in carico della questione ambientale da parte della Chiesa.

Il primo rivolo era quello del “gruppo sulla povertà”, operante all’interno del Concilio sin dalle sue primissime fasi. Questo gruppo aveva avuto un peso notevole nell’orientare i lavori conciliari riguardo alle questioni della giustizia sociale e nell’ispirazione della costituzione pastorale Gaudium et spes, l’ultimo grande documento approvato dai padri conciliari. In gran parte da questo gruppo, dai suoi membri e dalla sua ispirazione era poi sorta la pontificia commissione “Iustitia et pax”, l’organo mondiale della Chiesa chiamato da Paolo VI a occuparsi delle grandi problematiche sociali del mondo moderno. Una delle animatrici prima del “gruppo sulla povertà” e poi di “Iustitia et pax” era una famosa economista britannica, collaboratrice dei principali organismi mondiali e autrice di libri tradotti e venduti in tutto il mondo: Barbara Ward. Proprio a Barbara Ward, nel corso del 1969, il coordinatore di quella che sarebbe poi stata nel 1972 la grande conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano di Stoccolma affidò l’incarico di preparare un ampio documento preparatorio che divenne anch’esso un best-seller: Only One Earth. The Care and Maintenance of a Small Planet, uscito proprio alla vigilia della conferenza Onu. A Stoccolma, Ward sarebbe poi stata una delle figure centrali nella mediazione tra le varie linee che si confrontavano, ma all’interno della Chiesa avrebbe più in generale tentato per qualche anno di fare in modo che la “Iustitia et pax” assumesse in pieno la questione ambientale tra i propri obiettivi prioritari.

Il secondo rivolo si manifestò proprio in vista della conferenza di Stoccolma, pur avendo anch’esso qualche radice più lontana nel tempo. Come il primo rivolo, esso è legato ad alcuni personaggi precisi. Due in particolare: padre Bartolomeo Sorge e il professor Giorgio Nebbia, uno dei primi ambientalisti italiani di formazione tecnico-scientifica.

Nella prima metà del 1970 padre Sorge, colto e sensibile gesuita stretto collaboratore di Paolo VI, aveva percepito l’importanza politica e sociale ma anche culturale e teologica della questione ambientale. Probabilmente su stimolo di una prima corrispondenza con Nebbia, egli aveva probabilmente suggerito al Papa di affrontare l’argomento nel corso di un suo discorso alla FAO. Visti i rapporti tra Paolo VI e Sorge non è da escludere che quel discorso, il primo in cui un pontefice parlava di ecologia, fosse stato proprio redatto, o quantomeno strutturato, dal gesuita. Qualche giorno dopo Sorge aveva pubblicato un ampio, maturo e informato commento al discorso papale che per la prima volta poneva ai lettori della “Civiltà cattolica” il problema del degrado ambientale e del ruolo dell’uomo in esso. Grazie a questi precedenti la Santa Sede gli affidò il compito di coordinare un gruppo di lavoro incaricato di redigere il contributo ufficiale della Santa Sede alla conferenza di Stoccolma. Nebbia fu il principale animatore e ispiratore della redazione del testo, che si sarebbe rivelato uno dei più circostanziati e avanzati tra quelli prodotti dalle delegazioni nazionali al consesso dell’Onu.

Negli anni immediatamente successivi, anche se in modo non del tutto evidente ed esplicito, due tendenze si scontrarono all’interno della Chiesa. La prima tendeva a legittimare e istituzionalizzare l’impegno ecclesiastico in campo ambientale; la seconda invece tendeva a mettere la sordina, nella Chiesa come nel mondo, all’attenzione verso l’ambiente. I protagonisti della prima tendenza provarono a consolidare e ad ampliare il peso dell’ambiente nell’agenda di “Iustitia et pax” e per qualche anno ottennero dei piccoli risultati, apparentemente promettenti. I protagonisti della seconda tendenza iniziarono invece, appena dopo la fine della conferenza di Stoccolma, a circondare di cautele politiche e teologiche la questione ambientale. Essa infatti oltre ad essere poco compresa e poco sentita veniva identificata con il pericolo di diffondere nell’opinione pubblica mondiale e nei governi idee favorevoli alla limitazione delle nascite, che la Chiesa considerava una pratica immorale e pericolosissima, da combattere con tutte le forze.

Questa preoccupazione e questa battaglia contribuirono a far considerare l’ecologia – che già toccava poche corde cattoliche – come una specie di cavallo di Troia dei “malthusiani”. La seconda tendenza – sostenuta dai vertici della Chiesa – finì così col prevalere, e le timide aperture ottenute dalla prima tendenza furono presto accantonate. Alla metà degli anni Settanta il discorso era sostanzialmente chiuso.

È stato questo complesso di eventi, assieme al progressivo abbandono dello spirito, delle istanze e delle priorità del Concilio Vaticano II, a relegare fino ad oggi l’ecologia lontano dalla sensibilità e dalle priorità della Chiesa e dei cattolici. E ciò nonostante qualche timida e formale affermazione di Wojtyla e di Ratzinger nel corso degli ultimi trent’anni.

Dentro la sua ripresa dei temi e dello spirito del Concilio Vaticano II Jorge Bergoglio sembra dunque voler riannodare un filo interrotto. Con quali risultati, si vedrà.

[1] La vicenda ricostruita qui solo per brevi cenni è raccontata in dettaglio e con tutte le necessarie pezze d’appoggio in un saggio dal titolo “Only One Earth: The Holy See and Ecology”, in corso di pubblicazione negli atti del convegno Environmental Protection in the Global Twentieth Century: International Organizations, Networks and Diffusion of Ideas and Policies (Berlin 25-27.10.2012), a cura di Jan-Henrik Meyer e Wolfram Kaiser, per i tipi di Berghan Books, Oxford-New York.

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