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Sergio Brenna
Beni comuni sempre a rischio
11 Giugno 2008
Articoli del 2008
Nel contrastare la privatizzazione di ciò che è comune, non prendiamo dal passato gli esempi cattivi. Liberazione, 1 marzo 2008

C'era un insopportabile tanfo di Anni Cinquanta dieci giorni fa all'Urban Center, dove - convocato dall'assessore Masseroli al grido di battaglia boccionian-futurista "la città che sale" - sguazzava a proprio agio un codazzo di " professionisti acuti (che), tra i sorrisi ed i saluti, ironizzano i miei dubbi sulla vita" (della città). Col ritornello gucciniano mi frullavano per la testa le parole di Giuseppe De Finetti che nell'immediato dopoguerra si interrogava sul "perché le forze nuove della città si esprimono in modi così alieni, così sciocchi, così dannosi all'utile" e, ammonendo sul rischio di "lasciar prendere la mano ai praticoni od ai cosiddetti uomini d'azione, che credono di fare la civiltà d'oggi perché costruiscono case o producono beni industriali o commerciano le merci od il denaro e lo fanno sempre con furia gloriandosi della velocità della loro azione e del loro successo, ma sciupando la civiltà del domani, la ricchezza del domani", stigmatizzava "gli spiriti inquieti che tendono al nuovo per il nuovo, allo strano e al mirabolante" e "la frenesia di privatismo che si rivela nelle ricostruzioni senza piano regolatore" come "l'indizio più valido della decadenza dello spirito civico e, con ciò, della classe dirigente venturi aevi immemor" e invitava a ragionare per la città del 2000, decidendo sulle trasformazioni milanesi "dall'esterno e da lungi".

Un orizzonte decisamente troppo ampio e distante per chi, anche oggi, propone di abdicare al ruolo di indirizzo pubblico e collettivo sul "bene comune" che è la città, delegandolo alle opportunità di mercato di volta in volta ritenute aziendalmente attendibili e ad una conformazione progettuale e di immagine che in questa visione attiene più al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, assunto acriticamente da pubblici amministratori inclini (a destra e a sinistra) alla politica-spettacolo. Così a destra quelle stesse forze che strepitano contro il "tradimento" di Alitalia al ruolo produttivo indotto dalla Grande Malpensa, a livello milanese vogliono poi condizionare FS a reinvestire il miliardo di euro che si ricaverebbe dal riuso edificatorio degli scali ferroviari dimessi, sul Secondo Passante milanese per riconcentrare nel capoluogo metropolitano residenza di lusso e funzioni pregiate, anziché sulla Gronda regionale Novara-Malpensa-Bergamo e sul collegamento per Chiasso al progetto elvetico AlpTransit. Ma anche a sinistra non va meglio, se il sindaco comunista di Cinisello affida alla ciellina Progetto Fiera la valutazione economica delle proprie trasformazioni urbane "perché loro gli affari li sanno fare", se gli amministratori comunali di Sesto S.G. si affidano a un accondiscendente (e dimostrabilmente inattendibile) avallo economico di Guido Rossi per un ingiustificabile raddoppio degli indici edificatori all'ex Falck e se l'ex assessore di Pieve Emanuele giustifica la prosecuzione stabilita nella Finanziaria di Prodi dell'inciucio Bassanini/Tremonti nell'uso degli oneri urbanizzativi, perché altrimenti i Comuni non sanno come quadrare i bilanci sociali. Bertinotti, con bella suggestione metaforica, ha intitolato il suo ultimo libro, in cui espone "cinque riflessioni sul mondo che cambia", La città degli uomini. Anche inteso in senso più letterale, ciò esprime una pregnante attualità alternativa. Ma perché, allora, rifarsi all'esempio del populismo demagogico del primo Fanfani degli Anni Cinquanta, anziché alla ripresa dell'eredità storica delle conquiste riformiste e generaliste del centrosinistra degli Anni Sessanta/Settanta (Prg e standard pubblici di legge, 40-70% di edilizia popolare, ecc.), unico baluardo ancora oggi rimasto ai cittadini per opporsi alla deriva privatistico-liberista, via via prevalsa dagli Anni Settanta ad oggi?

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