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Paolo Di Stefano
Bellocchio: la letteratura si è fermata a Volponi
15 Febbraio 2007
Scritti 2005
Non tutti i giudizi sono condivisibili, l’analisi della crisi culturale della politica si. Da il Corriere della sera del 10 agosto 2005

È il vero «eretico» della cultura italiana. Dopo la stagione dei Quaderni piacentini, che fondò nel 1962, si è ritirato a vita privata pubblicando pochi libri (che raccolgono i suoi saggi) e avviando nell'85, con Alfonso Berardinelli, una rivista che sin dal titolo, Diario, rivelava intenzioni ben diverse.

Piergiorgio Bellocchio non ama la politica, forse non l'ha mai amata, rifiutando più di un invito a presentarsi come indipendente nelle liste del Pci. «Non ho mai preso la tessera del Pci. Mi allontanavano la sua chiusura culturale, il dogmatismo, la doppiezza dei dirigenti. Ma dal '53 ho pressoché sempre votato Pci, cioè con e per il popolo comunista, i migliori italiani che io abbia conosciuto. Ora rimpiango anche i dirigenti: avevano capacità, senso del dovere, carattere e un'onestà di cui s'è perso il ricordo». Oggi dice: «La politica mi annoia e disgusta. È diventata un mestiere. Coincide perfettamente con gli affari. Le mani sui soldi. Quando non sono affaristi in proprio, i politici sono mediatori e procuratori d'affari. Col tempo che passa rivaluto la vecchia classe togliattiana e quella degasperiana. Anche i socialisti di Nenni e Saragat. E tanto più gli Ernesto Rossi, Calogero, Jemolo… E i loro maestri Croce ed Einaudi». E Berlinguer? «Era un uomo rispettabile, ma aveva una quota di moralismo eccessiva: nello scontro con Craxi un vero politico avrebbe fatto meglio». Torniamo a Togliatti. «Togliatti riuscì a integrare la classe operaia nello Stato, un evento prefigurato dalla Resistenza, sia pure su scala ridotta. Resistenza peraltro rimossa dallo stesso Pci, e addirittura criminalizzata dal potere. Con gli Anni Sessanta c'è stata una rivalutazione dei suoi valori, però su basi spesso equivoche». Per questo Bellocchio non esita a individuare il suo «libro della vita» nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, uscite nel '52: «In una fase di involuzione clerico-fascista, a me che avevo vent'anni apparvero come la scoperta di un'altra Italia». Altra convinzione, non proprio recentissima: «La classe dirigente democristiana, fino a Moro, è sempre stata più a sinistra del suo elettorato. Ha svolto la funzione di frenare e disciplinare una borghesia che aveva il fascismo nel sangue, educarla alla democrazia: merito di uomini come De Gasperi, Dossetti, Vanoni, Fanfani, Moro. Il vecchio democristiano di destra Scalfaro contro Berlusconi ha avuto più intelligenza e coraggio dei postcomunisti. Più del laico ma pavido Ciampi».

Siamo lontani, come si intuisce, dalle ipotesi rivoluzionarie Anni Sessanta: « Quaderni piacentini nasce in coincidenza con la ripresa della lotta alla Fiat. La Fiat era il centro d'Italia e la classe operaia era per definizione la classe rivoluzionaria. Dalla fine dei Sessanta, la ristrutturazione produttiva riduce via via, anche quantitativamente, il peso della classe operaia, viene meno ogni ipotesi rivoluzionaria. Marxisticamente, il '68-69 non è stato un inizio, ma un epicedio». Al '68 seguirono gli anni del terrorismo. L'assassinio di Moro, raccontato dal fratello di Piergiorgio, Marco. Un parere su Buongiorno notte? Eccolo: «C'è troppa indulgenza nei confronti sia di Moro che delle Br, che furono il colpo mortale per la nuova sinistra. Ho preferito L'ora di religione, dove forse Marco è stato invece fin troppo cattivo nei confronti della Chiesa. Mi preoccupa un po' che il film sia piaciuto ai giovani, che non possono sapere cosa ha rappresentato il caso Moro per la storia d'Italia. Mi rendo conto che il mio è un pre-giudizio politico, ma non riesco ad applicare a quella materia ancora bruciante solo un giudizio estetico».

Non ha più voglia di parlare di Quaderni piacentini: troppe interviste, troppe discussioni, per una storia chiusa da tempo. Bisogna insistere un po'. Modelli? «Le riviste di Gobetti e Il Politecnico, letture postume naturalmente. Il Politecnico fu la cosa migliore fatta da Vittorini, non c'era separazione tra politica e cultura. Veniva anche incollato sui muri come un manifesto. A cattiva cultura, cattiva politica, e viceversa. Come dimostrano gli anni che stiamo vivendo, e al contrario gli anni del dopoguerra».

Qualche esempio, oltre al Politecnico? «Basta pensare a Fenoglio, Bassani, Calvino. E il cinema di De Sica, Rossellini, Visconti. E subito appresso, Antonioni, Fellini, Ferreri… E attori come De Filippo, Totò, Magnani, Fabrizi, e ancora Sordi, Tognazzi, Gassman…».

Più che nei Quaderni piacentini, oggi Bellocchio si riconosce in Diario: «L'ho fatto con passione e pieno coinvolgimento. L'abbiamo interrotto nel '93 perché ci siamo trovati di fronte a una situazione ancora peggiore di quella che il nostro pessimismo aveva pronosticato». E le polemiche contro Eco, e ancora contro la neoavanguardia?

«Risponderei come Kent nel Re Lear: non mi piacevano le loro facce. Un fenomeno di autopromozione. Si scagliavano contro Bassani, Cassola, la Morante… La neoavanguardia non ha prodotto un solo libro che fosse meglio del più brutto romanzo di Cassola. I romanzi di Eco? Non esistono. Ma ora basta, le brutte facce sono altre».

Passando agli Anni Settanta, ripensa a Pier Paolo Pasolini: «Ebbe un fiuto, un istinto, un'intelligenza sociologica fuori dal comune. Gli è stato rimproverato il lato nostalgico, ma la nostalgia non è un sentimento negativo in sé. Ascoltando di recente alla radio delle interviste a donne che erano emigrate dal Sud dopo il '45, cacciate dalla fame e dalla disoccupazione, sono rimasto colpito dall'allegria con cui ricordavano l'estrema miseria, ma anche la profonda solidarietà, che andava molto oltre il clan familiare. E poi il lavoro, malpagato ma meglio di niente… La prima lavatrice, che affrancava dalla schiavitù del lavatoio pubblico. Una donna raccontava di aver guardato per la prima volta l'oblò della sua lavatrice, che stava lavorando per lei, con una emozione superiore a quella provata davanti a uno schermo televisivo. I contadini, operai, artigiani, donne di servizio della mia infanzia: un mondo che ormai non esiste più, ma la cui umanità era senz'altro superiore a quella dei loro figli e nipoti più fortunati».

Da Pasolini a Franco Fortini il passo è breve: «Aveva un'attitudine magistrale eccellente. Ho imparato molto da lui, ma me ne sono anche difeso. Mi trovava non abbastanza marxista. Ci restavo male, perché allora il nostro desiderio era di essere veri marxisti (critici certo, ma marxisti), in realtà era la mia fortuna. Fortini vedeva bene il mio lato borghese e anarchico. Dei miei racconti usciti nel '66, che aveva apprezzato e quasi tenuto a battesimo (il titolo I piacevoli servi è suo), una volta gli scappò di dirmi: quanto sono anticomunisti! Ma non era una censura. Invece sull'intervento politico era severo».

Bellocchio ha omesso da tempo di seguire la narrativa. «Mi sono fermato a Volponi. Un'opera magmatica, difficile da ridurre a uno schema ideologico, anche se la passione politica è sempre presente. In Volponi c'è il comunismo e l'amore per l'industria. È un olivettiano che ha recepito le cose buone del progettare e del costruire: pensava che il Pci fosse il gestore ideale, l'erede della migliore borghesia. Poi ingenuamente si lasciò prendere dall'illusione di Rifondazione: non c'era ancora l'infausto Bertinotti; il festaiolo a tutta birra, l'avventurista cui la destra dovrebbe fare un monumento…». Volponi e poi? «Leggo e rileggo i vecchi. Carlo Levi, per esempio. Nuto Revelli, che ha svolto un lavoro straordinario. Di recente mi ha impressionato De Profundis di Salvatore Satta. Leggo con interesse e passione gli epistolari, le memorie, le testimonianze. Credo sempre meno nella cosiddetta creatività. Preferisco gli esecutori. Nel Tempo ritrovato Proust si definisce "un traduttore". Oggi i creativi e gli stilisti sono i pubblicitari, i sarti, i cuochi».

L'Italia al tempo di Berlusconi è l'Italia tartufesca descritta da Garboli? «Garboli ha colto come pochi l'italico costume. Il guaio non è tanto Berlusconi, il vero guaio è l'Italia che ha amato Berlusconi con l'idea che avrebbe fatto tutti ricchi come lui. Invece è successo che Berlusconi è diventato sempre più ricco e il Paese sempre più povero. Anche materialmente, ma soprattutto sul piano civile, culturale, politico. Berlusconi se ne frega nel modo più totale, non ha princìpi né progetti. Dice: volete la devolution? Ve la do. Volete la scuola privata? Ve la do. In questa situazione sciagurata ho dovuto rivalutare persone che solo vent'anni fa potevo definire poco meno che fascisti». Qualche esempio? «Il vecchio Montanelli, dopo aver passato la vita a raccomandare di "turarsi il naso" ma votare Dc, quando arriva Berlusconi decide che è troppo. Conservatori anticomunisti come Giovanni Sartori o Sergio Romano, capaci di indipendenza intellettuale. È paradossale, ma voterei per loro più volentieri che per quasi tutti gli uomini di centrosinistra. Kraus aveva sparato a zero contro i liberal-democratici-progressisti, poi arriva Hitler e dice: mi mancano le parole… Forse anch'io ho speso troppa indignazione a suo tempo e oggi mi trovo in bolletta».

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