Quando la socialdemocrazia tedesca decise di divenire forza di governo, alla fine degli Anni Cinquanta, fu la capacità di coalizione il cruciale banco di prova cui decise di sottoporsi, non solo muovendosi in modo diverso dal passato ma ripensando i propri programmi, lo sguardo sulla società, l’attitudine ad ascoltare voci differenti dalla propria. Il congresso di Bad Godesberg nel ’59 fu la scoperta e l’approfondimento di questa capacità, cui venne dato il nome di Koalitionsfähigkeit. La metamorfosi, che ebbe come protagonista Herbert Wehner, passò con difficoltà nel partito ma divenne evento fondatore: la Grande Coalizione, nell’autunno ’66, nacque da quella scelta e fu lo strumento attraverso il quale la sinistra, dopo ripetute sconfitte, poté prima governare con la Democrazia cristiana, poi divenire - già nel 1969 - forza egemone di un’aggregazione alternativa alla Dc. Il bipolarismo compiuto che da allora regna in Germania ebbe bisogno di quel tirocinio preparatorio, per metter radici. La capacità di coalizzarsi con forze non appartenenti al proprio campo irrobustì alla lunga il campo stesso, anziché impoverirlo e sopprimere l’alternanza tra fronti contrapposti.
Un fenomeno simile sta accadendo in Francia, da quando François Bayrou ha cominciato a salire nei sondaggi come uomo-ponte fra destra e sinistra. Qui abbiamo due blocchi che già hanno governato (il socialista-comunista, il gollista-liberale) e dunque formalmente il bipolarismo vive. Ma la loro Koalitionsfähigkeit è lungi dall’essere acquisita. I socialisti hanno una cultura delle coalizioni solo rivolta a sinistra, pur essendo oggi assai moderati: lo slogan «nessun nemico a sinistra», teorizzato nel primo Novecento dai radicali francesi, è rimasto immutato con Mitterrand, Jospin, Ségolène Royal.
Quanto ai gollisti di Sarkozy, essi sono ossessionati da Le Pen, con cui non vogliono allearsi ma i cui elettori intendono conquistare.
Bayrou rompe le abitudini, e lancia alla Francia una sfida del tutto nuova: ai cittadini come ai partiti chiede di apprendere l’arte di coalizzarsi col diverso. Nell’immediato, il suo progetto prevede un’intesa destra-sinistra, magari temporanea per non impedire future alternanze. Nella sostanza, e nel lungo periodo, la ginnastica mentale che propone consiste nella capacità virtuale d’ogni raggruppamento di cooperare sia a destra sia a sinistra, per svecchiare il profilo dell’una come dell’altra e restituire al paese un bipolarismo rinvigorito. Come Wehner a suo tempo, egli sembra convinto che governare durevolmente si possa alla sola condizione di imparare simili virtù di elastica resilienza e rifondazione.
All’origine di questa metamorfosi del pensiero francese non ci sono le ripetute sconfitte d’un partito, come in Germania negli Anni 50-60. Oggi sono più vaste malattie della democrazia rappresentativa - e delle famiglie di destra e sinistra - a esigere il cambiamento. Il caso francese quindi ci riguarda, nascendo da un male diffuso e annoso. La tesi di Bayrou è che sinistre e destre sono divenute impotenti, non essendo più in grado di rappresentare la società e di predisporre mutazioni importanti assieme a essa. Le proposte fatte da ambedue non tengono conto dello svanire della sovranità nazionale assoluta - tuttora un mostro sacro in Francia - e sono accomunate da illusioni completamente irrealistiche. Da questo punto di vista né Sarkozy né Ségolène Royal sono innovatori, nonostante si presentino come figure provvidenziali e originali (il primo perché volitivo di carattere, la seconda perché donna femminista).
Ambedue le forze sono divenute impotenti a causa della loro chiusura e inattitudine all’ascolto. L’esempio più clamoroso, che Bayrou cita sempre, è quello di Chirac: avendo raccolto nel 2002 una maggioranza immensa ma artificiale (82,2 per cento), egli non ebbe l’accortezza di aprire ai socialisti che l’avevano votato per evitare Le Pen. Quel che sinistre e destre non vedono, che non sanno ascoltare, è la trasformazione vistosa della società e della stessa democrazia rappresentativa. Una trasformazione che in Francia ha generato autentici tracolli: l’eliminazione del candidato socialista e la sua sostituzione con Le Pen nel 2002; il no caotico all’Europa nel maggio 2005; i tumulti nelle periferie nel novembre 2005: tutti eventi che hanno disvelato l’atrofia del bipolarismo classico e gli svantaggi delle reciproche impermeabilità. La scelta di divenire specchi fedeli della società non ha addomesticato quest’ultima ma l’ha ulteriormente frammentata, estremizzata. Entrambe le forze sono apparse lontane dal popolo, sorde, ed entrambe hanno reagito senza mutare abitudini di pensiero anche quando si rifugiavano nel populismo. Un populismo ormai radicato, non solo in Francia. L’Italia aveva dato il via, negli Anni 90, con Mani Pulite, al crollo dei vecchi partiti e all’impolitica alternativa di Berlusconi. A questo «populismo lungo», il politologo Rosanvallon dà il nome di contro-democrazia. Una contro-democrazia che di per sé è la naturale risposta al frantumarsi dei partiti, delle visioni sociali d’insieme. Il cittadino non più affiliato a grandi organizzazioni partecipa alla cosa pubblica votando, ma anche fabbricandosi vari poteri indiretti.
Contro-democrazia è quando si reagisce alla crisi delle democrazie rappresentative con una democrazia negativa: aumentando il potere di sorveglianza, di veto, di giudizio istantaneo su ogni politica, breve e non. Chi reagisce è un cittadino niente affatto passivo, che interviene con metodi classici (il voto) e non classici (piazza o rivendicazioni identitarie, giudici o stampa), ma che imboccando tale strada ha perso la visione d’insieme dell’interesse pubblico e ogni volontà che non sia d’impedimento. Il populismo e l’antipolitica sono patologie della contro-democrazia: il potere vigilante diventa delegittimazione costante, il veto blocca le politiche anziché suscitarle, il giudizio diventa sistematica distruttività (Pierre Rosanvallon, La contre-démocratie, Seuil 2006).
Di qui la necessità di infrangere le barriere: di «scomporre le linee», dicono i francesi citando Baudelaire. Di evitare che la frammentazione favorisca paradossalmente chi inventa di sana pianta un popolo uno, indiviso: il populista, appunto, secondo il quale qualsiasi avversario che non rappresenti l’Uno è subito illegittimo. Di qui l’alternativa suggerita da Bayrou: non l’uomo provvidenziale che congela divisioni fossilizzate, ma il politico che ingloba la contro-democrazia per curarne le patologie, esercitandosi nelle coalizioni con il diverso da sé e ridefinendo i futuri criteri di divisione.
In Italia quest’apprendimento è in corso ed è significativo che l’esempio Prodi seduca Bayrou. Centro-sinistra e Ulivo sono la risposta all’emergenza populista di Berlusconi e alla crisi della democrazia. Contrariamente a quel che si dice, non abbiamo in Italia un blocco governativo di sinistra, ma un blocco che oltre all’Unione comprende conservatori e sinistre estreme. Sia pur faticosamente, anche queste ultime hanno dimostrato capacità di coalizione: hanno digerito un pesante risanamento economico, accettato la missione in Libano, scoperto l’Europa. Divenire capaci di coalizioni e dunque di governare presuppone nei due blocchi la preservazione di un programma minimo cui non si rinuncia: a sinistra possono essere i diritti della persona, il lavoro non precario, o la laicità e autonomia della politica; il multilateralismo o un’Europa autonoma dall’America. Bayrou, ad esempio, promette modifiche profonde (l’abbandono dell’illusione nazionale di De Gaulle, un’Europa federale fatta da un’avanguardia di Stati) ma al tempo stesso è fermo nel preservare alcuni valori: il modello d’integrazione repubblicana, la laicità, la valorizzazione di servitori dello Stato come gli insegnanti.
Ma, soprattutto, egli propone di assorbire la contro-democrazia: di darle un ordine, una voce, per evitare che sfoci nella malattia dell’impolitica populista. Da questo punto di vista, Bayrou non è centrista come son centristi alcuni italiani. Non dice che la mutazione avverrà solo a opera d’una famiglia centrale. Dice che avverrà solo se si incorpora la contro-democrazia, espressione della nuova società della diffidenza cresciuta sulla chiusura reciproca di tutti i partiti, compresi i centristi. Dice che devono cambiare non solo metodi ma programmi: cosa non ancora avvenuta nelle forze centriste. I centristi italiani ad esempio non hanno ancora appreso la Koalitionsfähigkeit ad ampio raggio. Sembrano interessati a un’aristocrazia chiusa, autosufficiente, come proposto da Antonio Polito e Nicola Rossi in una lettera a Follini pubblicata l’8 marzo sul Corriere della Sera. Follini sembra più lungimirante. Nella risposta, il 9 marzo sul Corriere, sostiene che un ponte fra destra e sinistra è preferibile a un tetto su nuove compatte famiglie. È il ponte che educa alla Koalitionsfähigkeit, all’ascolto e rispetto del diverso, e che aiuterà a ricreare una bipolare architettura fatta di famiglie, case, tetti meno pericolanti.