Non era difficile essere profeti di disgrazia a proposito della ricerca di idrocarburi nel Golfo del Messico. Gli standard di sicurezza non sono, di fatto, rispettati dal 1979, anno del primo grave incidente, e ancora non è stata nemmeno affrontata la situazione derivata dalla falla della Deepwater Horizon, quando un nuovo incidente, i cui contorni sono singolarmente ancora incerti, riapre una questione che deve trovare una risposta definitiva.
È possibile trivellare allegramente tutta la crosta terrestre senza pagare un prezzo ambientale elevato? A questa domanda abbiamo risposto affermativamente per oltre un secolo, ma invece di approfittare della seconda tecnologia al mondo per investimenti e innovazione (prima del petrolio c’è solo l’industria delle armi) al fine di lavorare in condizione di «safety first», abbiamo abbassato i livelli di sicurezza. Un tempo un incidente in fase di trivellazione o produzione era piuttosto raro, oggi rischia di diventare frequente, non esattamente a causa della crisi economica, visto che il margine di profitto sugli idrocarburi è talmente enorme da non mandare ancora fallita la Bp, pure se si dovrà impegnare per mezzo secolo al ritmo di qualche miliardo di dollari all’anno, se vuole riportare la vita nel Golfo.
Ma questa situazione è figlia dell’attuale grado raggiunto dall’esplorazione petrolifera mondiale: la maggior parte dei grandi giacimenti è stata scoperta negli Anni Settanta e, se si vuole ancora esplorare, restano due frontiere, i Poli e le profondità oceaniche. Per ragioni di carattere ambientale e scientifico l’Antartide è off-limits, protetta da un trattato del 1959 che vacilla ma ancora tiene. L’Artico è oggetto di appetiti, ma, per ora, i costi sono troppo elevati. Restano i fondali oceanici, anche a profondità di qualche migliaio di metri, target un tempo impossibile per via delle difficoltà tecniche, oggi reso possibile dall’aumento dei ricavi. Che si tratti dell’Oceano Atlantico o del Mediterraneo, assistiamo a una fiorire di permessi di esplorazione senza eguali, anche alle nostre latitudini (quasi 40.000 kmq di nuove richieste fatte da ditte non meglio conosciute che comprano permessi di ricerca in Adriatico e nel Tirreno settentrionale, mettendo nel mirino addirittura il santuario dei cetacei). In vista di un rincaro dei prezzi la corsa al nuovo giacimento continua, sperando di compensare i costi con un barile a più di 100 dollari.
Nel 2009 la produzione italiana di petrolio offshore è stata 525.905 tonnellate: 353.844 in Zona B (Adriatico centrale) e 172.061 in Zona C (Tirreno meridionale e Canale di Sicilia) ma Legambiente fa notare che nei primi due mesi del 2010 la produzione è aumentata in totale di quasi il 35%, passando da 83.882 tonnellate a 113.136. Nello specifico è stata registrata una flessione dell’8% in Zona B (passando dai 58.020 tonnellate del 2009 alle 53.470 del 2010) e un notevole aumento pari al 130% in Zona C (passando dai 25.863 tonnellate del 2009 alle 59.666 del 2010). In Zona B il petrolio si estrae da 5 piattaforme e da un totale di 35 pozzi, in Zona C il greggio si estrae da 4 piattaforme e da un totale di 41 pozzi. Tutto questo grazie alle semplificazioni della normativa approvate dal governo e a un prezzo del barile a livelli sempre più elevati, fino a rischiare l’ubicazione in aree di elevato pregio ambientale.
È vero che sono ancora più gravi i problemi che provocano le petroliere, ma l’incidente di aprile e quello di ieri stanno cambiando le statistiche: forse ancora non sono così frequenti, ma i danni che provocano sono micidiali. Il presidente Obama aveva minacciato una moratoria alle perforazioni nel Golfo del Messico: deve ora essere conseguente a questa sua estrema decisione, così come si dovrebbe fare immediatamente nei nostri mari, dove un incidente avrebbe conseguenze ancora più gravi per via delle dimensioni ridotte. Le piattaforme internazionali non sono protette da convenzioni come l’Iopc (International Oil Pollution Compensation), forse perché troppo onerose: fatto sta che il prezzo lo paga poi comunque la collettività.
Gli idrocarburi sono stati un regalo avvelenato del nostro pianeta, una specie di cavallo di Troia che non abbiamo potuto esimerci dall’accogliere. Ma all’inizio del terzo millennio sarebbe ora di rispedirlo indietro e tentare altre strade.