Nella presentazione grafica – nel programma a stampa – di questo nostro contributo al festival è caduto per comprensibili ragioni di semplificazione il sottotitolo che meglio lo avrebbe spiegato e a cui teniamo molto anche perché credo che si sia rimasti in pochi a condividerne la proposizione o almeno ad avere la imprudenza di enunciarla. Voglio dire della “attualità della Carta di Gubbio”, dettata ormai sono cinquant’anni e ripudiata perfino dall’ANCSA, l’associazione che proprio su quelle dichiarazioni si era costituita. Una dottrina, si dice, misurata nei secondi anni 50 del secolo scorso sulle dimensioni e i problemi delle piccole città dell’Umbria che allora avevano conservato pressoché intatta la forma e non erano strette dalla pressione di slabbrate periferie e dunque su tipi non rappresentativi della varietà e complessità di condizioni urbane tra loro incomparabili. E son passati cinquant’anni, si insiste, l’elaborazione della cultura della città è giunta a nuovi approdi (i tempi del rinnovo della cultura degli architetti sono, facile constatazione, rapidissimi) e i processi di trasformazione urbana registrano oggi situazioni e problemi che allora neppure erano immaginabili. Come è oggi possibile, si conclude, parlare di “unitario bene culturale” dove il centro storico, e specie nelle maggiori città, ha smarrito i suoi confini, registra vaste porzioni di tessuto edilizio profondamente alterato, e pure nelle sue tipiche funzioni, per il quale dunque è improponibile la dottrina del restauro urbano?
E anche il codice dei beni culturali e del paesaggio non ha inteso ricomprendere nella sua disciplina il centro storico (ma meglio si direbbe l’insediamento urbano storico, la città storica insomma, che se è divenuta geometricamente centro lo deve alla smisurata e recente espansione, che la stringe da ogni lato, come periferia assai spesso priva di qualità urbana: solo Ferrara ha saputo preservare sul lato a nord il rapporto diretto con la campagna, per la sua addizione verde), neppure, dicevo, il “codice” ha voluto riconoscerlo come autonomo – tipico e specialissimo - bene culturale nel suo complesso unitario, secondo il suggerimento di Italia Nostra disatteso dalla commissione preposta alla recente e conclusiva revisione.
E’ certamente vero che le regole dettate dalla Carta di Gubbio sono di per sé insufficienti ad assicurare una efficace tutela di quella realtà composita e assai complessa che era, è ancora, vogliamo che sia, il centro storico. Perché, si dice, anche del risanamento conservativo si è impossessata la speculazione edilizia e alla preservazione del tessuto edile fisico può non corrispondere quella altrettanto e forse più decisiva del tessuto sociale. Ma è all’urbanistica allora e alla politica della città che spetta di apprestare i più adeguati strumenti di intervento perché i principi cui la Carta si ispira non ne risultino travolti.
E se alla città storica come organismo urbano unitario si deve riconoscere la qualità di bene culturale, ad essa sono appropriati i modi del restauro, adeguati, si intende, alla specialissima natura di un oggetto che è sede, in senso proprio, della vita delle persone e che alla persistenza delle condizioni della loro vita vede legata la preservazione dei suoi complessi valori.
Di risanamento conservativo si era dunque parlato (e ancora vogliamo parlare) come la risposta moderna, e innovativa nel metodo, alla esigenza (da nessuno messa in discussione) di tramandare la città “storica” quale connotato essenziale e sicuramente il più incisivo, della identità del nostro paese.
Si era creduto che gli argomenti opposti dai Brandi e dai Cederna a chi continuava a rivendicare l’incomprimibile diritto dei moderni ad esprimersi con il proprio autentico linguaggio entro i contesti antichi (come sempre, perbacco, era avvenuto nel passato e antistorico sarebbe stato quindi negarlo agli architetti di oggi!) avessero definitivamente convinto. Negare all’architettura “moderna” la legittimità ad intervenire nei contesti storici non implica affatto un pregiudizio nei suoi confronti, ma al contrario quella negazione si fonda sul riconoscimento dei suoi più autentici valori che sono di rottura della tradizione e che la rendono perciò incompatibile (per questi stessi caratteri intrinseci che hanno saputo raggiungere esiti di alta qualità formale) con il principio di spazialità prospettica al quale obbediva l’architettura del passato. Tra il Palazzo Massimo alle Colonne di Corso Vittorio con le sue finestre balconate e la Casa sulla cascata con i suoi sporti, ogni continuità è spezzata, osservava Brandi. E’ la coscienza storica del passato, rifletteva Cederna, acquisizione della cultura dei “moderni”, che ci impone di rispettare la spazialità dei centri storici e di rifiutare la contaminazione reciproca tra i modi tradizionali di costruire la città del passato e gli stilemi dell’architettura contemporanea. Il rapporto tra antico e moderno, aggiungeva, si pone non già al livello edilizio per impossibili accostamenti, ma a quello più ampio, urbanistico, perché il risanamento dei centri storici e la costruzione della moderna città sono operazioni diverse nei metodi ma complementari, essendo agli architetti di oggi affidato il compito arduo, che ancora attende di essere adempiuto, di riscattare i più recenti insediamenti urbani dalla mortificante condizione di periferia della città storica, per restituirli alla dignità di autentica città moderna. Insomma la conservazione dei centri storici è la vera innovazione, siamo moderni perché rifiutiamo di comportarci come era legittimo (perché la cultura di quei tempi lo consentiva) nel passato, ma oggi non possiamo più mettere con il Bernini i torricini sul frontone del Pantheon (e fu un errore rimuoverli nell’ottocento). Ed è tutta moderna la concezione stessa del centro storico come organismo complesso che non è fatto soltanto (mi rendo conto di dire banalità) della successione delle singole architetture e deve la sua unità alla integrazione degli elementi compositivi di diversa epoca e natura, valendo gli spazi inedificati (siano strade, piazze, orti e giardini) quanto le strutture costruite (e dunque l’ inserto di un nuovo edificio vale come la demolizione di quello antico). Ed è moderna, nuova, complessa, la scienza della conservazione, del risanamento conservativo (non solo del singolo edificio ma del complessivo organismo urbano), che ancora non ha dato soddisfacenti risposte ai molti ed ardui problemi che ad essa si pongono (per indicarne uno soltanto, il rifiuto in ogni caso del ripristino sembra espressione di un pregiudizio ideologico) ed esige impegnativi approfondimenti. Certo è che il restauro urbano non è attitudine rinunciataria ed esprime una tensione di elaborazione progettuale che è pari alla creazione del nuovo e se certi interventi nei propositi ricondotti al metodo del risanamento conservativo non possono essere condivisi, il fenomeno non mette in crisi la praticabilità del metodo stesso, ma pone l’esigenza di un suo affinamento, specie con riguardo alla fase della esecuzione dell’opera e dei relativi controlli.
Il discorso che si è fatto fin qui, si sarà ben capito, implica il netto, ma Italia Nostra crede motivato, rifiuto a considerare il centro storico come il campo aperto agli esercizi di stile della nuova architettura impegnata a testimoniare (ma così, affermandosi, si nega) in un velleitario confronto con l’antico il linguaggio autenticamente moderno, nel proposito di accrescere con il proprio contributo la qualità sedimentata nell’ambiente urbano storico. E francamente preoccupa il cedimento delle istituzioni della tutela di fronte alla restaurazione di quella cultura del passato che non sa riconoscere i valori autentici della città storica e rifiuta le regole consolidate di un rigoroso restauro, accreditandosi con l’autorevolezza intimidatrice delle stars dell’architettura internazionale (la moltiplicazione vertiginosa dei volumi per il Teatro del Piermarini alla Scala; la magniloquente cortina che musealizza l’ ara pacis e chiude il quadrilatero del grande sventramento di piazza Augusto Imperatore, completando idealmente il grandioso progetto littorio degli anni trenta del novecento). Lo stesso ministero per i beni culturali attraverso la sua direzione per l’architettura e l’arte contemporanee accetta e anzi espressamente promuove “la sfida della qualità”, dove la garanzia della qualità sarebbe assicurata dall’istituto del concorso naturalmente entro l’orizzonte internazionale. E non ha fatto scandalo che, contro le finalità istituzionali di tutela, a un simile strumento di selezione si sia ricorsi per trovar soluzione a un tema che correttamente doveva intendersi come tema di rigoroso restauro: il prospetto posteriore “non finito” della fabbrica del Vasari sarà completato con la realizzazione dell’idea vincente di una monumentale via di uscita dagli Uffizi, moderna versione della Loggia dei Lanzi, come assicura il progettista.
Credo che Italia Nostra debba rifiutare “la sfida della qualità”, sorprendentemente presentata come il promesso esonero, alla condizione di una sfuggente “qualità”, dalle regole del restauro delle strutture urbane storiche e perfino del singolo monumento; e allarmata esprimere un fermo richiamo alla responsabilità delle istituzioni della tutela.