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Assalto alla Costituzione
10 Febbraio 2009
Articoli del 2009
I commenti di Manzella, Rodotà, Zagrebelsky all’attuale situazione di pericolo che vive il nostro ordinamento democratico. Da la Repubblica e Repubblica.it, 9 febbraio 2009 (m.p.g.)

la Repubblica

L’arrembaggio alla Costituzione

di Andrea Manzella

Negli ultimi quindici anni, l’unica vera e grande sconfitta del centro-destra avvenne il 25 e il 26 giugno del 2006: quando il 61,7 per cento degli elettori bocciò il progetto di revisione costituzionale del terzo governo Berlusconi.

Uno scarto di voti che non si era mai verificato prima, non si verificherà mai dopo. Chi percorse l’Italia, meno di tre anni fa (non di tre secoli fa) ricorda la modestia di quella campagna per il «no»: passaparola, riunioni mai troppo affollate, partiti distratti. Vi era però anche una accorata partecipazione cittadina, l’attenzione di chi rischia di perdere la propria carta d’identità. Queste qualità si capirono poi, in quella data d’estate che sembrava proibitiva e senza vincolo di quorum: quando andò a votare invece il 53,6% dei cittadini iscritti.

Sarebbe bene che di quei giorni e di quei conti si ricordasse il presidente del Consiglio che dichiara oggi una seconda guerra contro la Costituzione. Momento e terreno sono stati scelti con il consueto istinto.

La strapotenza numerica parlamentare non vede flessioni di sondaggi. Il campo è quello vasto delle incertezze bioetiche. È in corso un lacerante dramma di coscienza popolare. Non c’è qui neppure l’ombra del pervasivo conflitto di interessi. Eppure, eppure.

Quando, com’è fatale, il casus belli si sarà allontanato e separato dal conflitto istituzionale di fondo. Quando le alleanze stipulate sulla tragedia di Udine rifiuteranno di estendersi ad un avventuroso disegno di potere senza garanzie. Quando questo, tra poco avverrà, riappariranno allora, con la loro forza impeditiva (al di là di quello che potrà fare l’opposizione parlamentare) le debolezze culturali ed etico-nazionali di un tale progetto di arrembaggio alla Costituzione. Vecchi e nuovi alleati obietteranno. Sarà chiaro a tutti che dal predellino di un’auto si possono cancellare vecchi partiti e inventarne uno nuovo. È più difficile cancellare una Costituzione e imporne una diversa.

Sarebbe bene però che di quelle giornate del giugno 2006 si ricordasse anche chi oggi ha il diritto-dovere dell’opposizione costituzionale (un aggettivo tradizionale che acquista ora una intensità di significato che non aveva prima). Non per cullarsi nell’illusione che alla fine avrà la meglio il radicamento popolare di istituzioni e libertà.

Nell’anno appena trascorso, il grande seminario popolare per i sessant’anni della Costituzione ci ha infatti detto, al di là della inevitabile retorica di certe celebrazioni, che abbiamo a che fare, nella vita politica e di ogni giorno, con una Costituzione problematica, con una Costituzione inquieta che chiede nuove letture: magari più radicali di nuove riscritture. Non è un testo che ci può fare addormentare tranquilli nel suo tran tran, nelle sue formule felici, ma è una «sentinella» che ci impone di stare svegli sui suoi principi e sui suoi equilibri: perché i pericoli sono cresciuti e le antiche difese si sono abbassate.

Ecco perché un’opposizione che voglia far fronte a questa nuova guerra, deve darsi una regola, un programma, un suo pensiero costituzionale, appunto. Che questo debba partire dalle garanzie è cosa da tempo evidente: non per impedire ma per consentire il «governo democratico» dello stato di eccezione permanente in cui viviamo. Di questo programma, di questo pensiero non si è vista finora traccia alcuna.

Da questo punto di vista, il presidente del Consiglio ha reso un servizio utile al paese. Rivelando il suo disegno punitivo della Costituzione, ha forse rotto le uova nel paniere di tanti suoi accorti negoziatori. Ma certo ha ridicolizzato quell’opposizione che, malata di cecità istituzionale, si accingeva a scambi ineguali, a patti leonini (con il leone), a cambiali in bianco.

Da oggi tutto si svolge in clima di grande chiarezza: dopo che il premier ha rovesciato il tavolo degli equivoci, la trattativa sulle regole può ricominciare. Ma da oggi peseranno - irreversibilmente: perché legate, per contrappasso, al ricordo irreversibile dell’attuale dramma - alcune cose.

La prima cosa è che il premier rifiuta la garanzia del capo dello Stato. La rifiuta nella forma riservata che era ormai consuetudine repubblicana (Luigi Einaudi, chiuso il suo mandato, aveva raccolto, nel 1956, quei suoi «pareri» in un libro famoso: «Lo scrittoio del presidente»). La rifiuta come controllo di legittimità preventiva sul più «pericoloso» dei poteri del governo: decreti per fare norme legislative che entrano in vigore, prima ancora che il Parlamento se ne possa occupare.

La seconda cosa è che il premier ritiene che con un atto normativo urgente di governo sia possibile impedire l’attuazione, su una vicenda umana, di sentenze definitive emesse da tre ordini di giudici (civili, amministrativi, costituzionali) sulla base di principi della Costituzione, dopo un «giusto processo» iniziato nel 1999. Senza che il legislatore sia in tutto questo tempo intervenuto.

La terza cosa è che il premier considera che il metodo naturale per governare sia quello per decreto. Il ruolo del Parlamento viene dopo, a norme fatte e a rapporti giuridici iniziati sulla loro base.

La quarta cosa è che il premier contesta la stessa legittimazione originaria della Costituzione, scritta «con la presenza di forze che hanno guardato alla Costituzione sovietica come a un modello». Certo: si tratta di una vecchia manipolazione, ricorrente come i «protocolli di Sion». Ed è inutile ricordare che l’influenza «sociale» dei cattolici e dei social-comunisti poté manifestarsi solo nei «compromessi» delle norme programmatiche della Costituzione: non certo sulle garanzie istituzionali. È inutile anche ricordare che quando la Costituzione fu votata, i social-comunisti erano già stati espulsi dal governo De Gasperi: e anzi era cominciata la loro esclusione «strutturale» dai governi del paese. È inutile pure ricordare che il 22 dicembre 1947 votarono per la Costituzione: Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, ma anche Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi; Giorgio La Pira ed Epicarmo Corbino; Aldo Moro ed Amintore Fanfani; Benedetto Croce e Giuseppe Dossetti. È inutile ricordare tutto questo perché sono cose scritte anche nel più elementare dei libri di scuola.

Se il premier preferisce invece la contrapposizione del non-vero è perché capisce che solo la collaudata tecnica propagandistica anticomunista può aiutarlo a tirar via dall’aria del paese un elemento, come la Costituzione, che vi è entrata quale fattore costitutivo e vissuto di cittadinanza: anche per chi non l’ha mai letta.

Ecco, con queste avvertenze, il dialogo può anche ripartire. Gli ultimi fatti italiani ci dicono, anzi, quanta misura di sicurezza istituzionale si debba ancora ricercare assieme.

repubblica.it

Lo tsunami costituzionale

di Stefano Rodotà

1) La turbolegge. Berlusconi vuole imporre in tre giorni una norma che cancella ogni traccia di divisione dei poteri, per impedire l'attuazione di un provvedimento giudiziario passato in giudicato e inventando un nuovo circuito istituzionale, che affida a un Parlamento incatenato il compito d'essere il killer dei giudici. Ma la strada scelta è, tecnicamente, non percorribile.

Nella relazione che accompagna il disegno di legge del Governo si sostiene che non siamo di fronte ad una sentenza passata in giudicato, perché i giudici non hanno accertato un diritto, ma si sono limitati ad integrare la volontà di un privato, quella di Eluana Englaro, con un semplice provvedimento di"volontaria giurisdizione". Non è così.

Quando la Cassazione ha ammesso il ricorso straordinario contro il decreto della Corte d'appello, che autorizzava la procedura di interruzione dei trattamenti, lo ha potuto fare proprio in considerazione del fatto che si trattava di un provvedimento relativo a diritti, che assume i caratteri del giudicato e che, quindi, detta una disciplina immutabile del diritto considerato. Ed è principio indiscutibile in tutti gli ordinamenti che la legge sopravvenuta non può influire sul diritto sul quale il magistrato si è pronunciato con un provvedimento passato in giudicato.

Il Governo tenta una ennesima forzatura, pericolosa e inutile. Pericolosa, perché insiste su una soluzione che, con rigore tecnico, era stata ritenuta non percorribile dal Presidente della Repubblica: si vuole, dunque, mantenere aperto il conflitto con Napolitano. Inutile, perché non sarà possibile intervenire in modo legittimo per bloccare l'attività già avviata di interruzione dei trattamenti sulla base di una legge su questo punto chiaramente incostituzionale.

Quali altri atti di forza, allora, si escogiteranno per espropriare i cittadini della possibilità di condurre "la lotta per il diritto" - è questo il titolo d'un classico del liberalismo ottocentesco, del giurista Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato negli anni del fascismo - e per impedire che possano avere ancora "giudici a Berlino"? Questa era l'orgogliosa sfida del mugnaio di Sans-Souci in presenza di Federico il Grande. Mugnai e giudici stanno perdendo diritto di cittadinanza in Italia?

2) L'inammissibile libertà. Dice il cardinale Ruini: "Preferisco parlare di una legge sulla fine della vita. La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto". Il mutamento linguistico, dunque, rivela un capovolgimento concettuale e politico. Per quante perplessità il ricorso al termine "testamento" possa suscitare dal punto di vista tecnico-giuridico, esso esprime bene il fine che si vuol raggiungere. Testamento biologico, testament de vie, living will ci parlano di un "atto personalissimo", in cui è sovrana la volontà dell'interessato.

Certo, la vita non è un oggetto, ma appartiene sicuramente alla sfera più intima dell'interessato che, com'è ormai chiaro, giuridicamente può disporne e ne dispone. Quando, invece, si parla di una legge sulla fine della vita, il legislatore non si fa signore della morte, perché questo è un evento naturale sul quale nessuno può intervenire. Si impadronisce del morire, che è vicenda umana, alla quale si pretende di imporre regole autoritarie, incuranti delle ragioni della coscienza di ciascuno.

La coscienza, allora, che in politica compare soprattutto come diritto al dissenso. Diritto già negato dal Presidente del Consiglio ai suoi ministri, che avrebbero potuto manifestarlo in quest'ultima vicenda solo dando contestualmente le dimissioni. E che i tempi imposti e la minaccia della fiducia negano anche ai parlamentari della maggioranza, perché il dissenso non è solo dire un sì o un no, ma la possibilità di argomentare, di discutere in quel foro democratico che continuiamo a chiamare Parlamento.

Il fatto che il diktat berlusconiano non si estenda direttamente ai parlamentari dell'opposizione non esclude che anche nei loro confronti si commetta un sopruso. Ma bisogna guardare più a fondo. Quando le decisioni legislative incidono direttamente sull'autonomia delle persone nel governare la loro vita, la libertà di coscienza non è solo quella dei parlamentari. La libertà di coscienza da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Il problema, allora, non riguarda la libertà di coscienza di chi deve stabilire le regole: investe la legittimità stessa dell'intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, quelle scelte. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: quando si affrontano i temi eticamente sensibili la libertà di coscienza dei legislatori può divenire massima, quella dei destinatari della norma minima.

3) Un "pieno" di diritto. Si è detto, e si continua a ripetere, che una legge è comunque necessara, perché bisogna colmare un pericoloso vuoto legislativo. Per l'ennesima volta invito a leggere la sentenza della Corte di Cassazione dell'ottobre 2007, la decisione centrale per il caso Englaro, che mostra rigorosamente come il diritto al rifiuto di cure, anche per il futuro, sia solidamente fondato su norme costituzionali, su convenzioni internazionali ratificate dall'Italia (non quella sui disabili, abusivamente richiamata nell'atto di indirizzo del ministro Sacconi), su articoli della legge sul servizio sanitario (e del codice civile, come quelli sull'amministrazione di sostegno per gli incapaci).

Siamo di fronte a un "pieno" di diritto, che si vuole "svuotare" con una mossa restauratrice, invece di integrarlo con poche, semplici norme che rendano più agevole e sicuro l'esercizio di un diritto che, lo ripeto, già esiste, non è un'inaccettabile creazione giurisprudenziale.

L'argomento del far west lo conosciamo e ha sempre prodotto danni, come dimostra tra l'altro la pessima legge sulla procreazione assistita, che davvero ha prodotto un far west legato ad un "turismo procreativo", che nasce da un proibizionismo cieco e rende più difficile la vita delle persone, delegittimando ai loro occhi una legge che sono obbligati ad aggirare.

Se la turbolegge passerà, ponendo le premesse per una normativa proibizionista sulla fine della vita, si daranno incentivi al turismo "eutanasico", alle pratiche clandestine già tanto diffuse. Verrà così santificata la doppia morale - fate, ma senza clamore e scandalo. E saranno sconfitti tutti quelli che vogliono rimanere nel solco della legalità e dello Stato di diritto, come ha dolorosamente voluto Beppino Englaro, un eroe civile al quale nessuno dedicherà un film come ha fatto la civilissima America per le storie di Erin Brockovich e Harvey Mills.

4) La Costituzione "sovietica". Con la nuova dottrina costituzionale del Presidente del Consiglio si precipita in un abisso culturale, in mare di contraddizioni. Non si accorge, il Presidente del Consiglio, del grottesco di una argomentazione che lamenta la debolezza dei suoi poteri costituzionali, e poi accusa la stessa costituzione d'aver preso a modello quella sovietica, che appartiene ad uno dei regimi più violentemente dittatoriali che la modernità abbia conosciuto? Sa che la Costituzione italiana ha inventato un modo nuovo di parlare dell'eguaglianza?

Che ha anticipato tutti gli sviluppi successivi su temi come quelli della salute o del paesaggio, all'epoca ignorati da tutti i grandi documenti costituzionali, la costituzione francese e quella tedesca, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'Onu e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo?

Sarebbe vano ricordare al Presidente del Consiglio la bella frase con la quale Piero Calamandrei descriveva la nostra come una "Costituzione presbite", dunque capace di guardare lontano e di inglobare il futuro. Risponderebbe senza esitazioni che Calamandrei era "un comunista". E sarebbe pure vano ricordargli che "i principi supremi" della Costituzione non possono essere modificati neppure con il procedimento di revisione costituzionale, e che tra questi principi supremi vi è proprio quello di laicità, perduto in questo clima di sottoposizione della Costituzione alla tutela vaticana. E che esiste un principio che impone al Governo di "coprire" il Presidente della Repubblica, sì che ci si doveva attendere una protesta ufficiale per la dichiarazione ufficiale vaticana di "delusione" per il comportamento di Giorgio Napolitano.

L'obiettivo è chiaro. Rompendo con la Costituzione, Berlusconi infrange il patto civile tra i cittadini e non ci porta verso una Terza o una Quarta Repubblica, ma verso un cambiamento di regime, ad una sovversione, ad una radicale sostituzione del governo della legge con quello degli uomini (Platone, non Stalin).

Ha colto nel segno Ezio Mauro quando ha parlato di una palese deriva bonapartista. Stiamo vivendo una vicenda che sta a metà tra "Napoleone il piccolo" (Victor Hugo) e "La resistibile ascesa di Arturo Ui" (Bertolt Brecht). Resistibile, Ma bisogna resistere davvero e subito o non vi sarà tempo per ripensamenti e pentimenti.

la Repubblica

Il veleno nichilista che anima il regime

di Gustavo Zagrebelsky

Viviamo un momento politico-costituzionale certamente particolare. Questo non è in discussione, sia presso i fautori, sia presso i detrattori del regime attuale. Non sarà fuori luogo precisare che, in questo contesto, la parola regime vale semplicemente a dire – secondo il significato neutro per cui si parla di regime liberale, democratico, autoritario, parlamentare, presidenziale, eccetera – "modo di reggimento politico" e non ha alcun significato valutativo, come ha invece quando ci si chiede, con intenti denigratori espliciti o impliciti, se in Italia c’è "il regime". Ma che tipo di regime? Questa è la domanda davvero interessante.

Alla certezza – viviamo in "un" regime che ha suoi caratteri particolari – non si accompagna però una definizione che dia risposta a quella domanda. Sfugge il carattere fondamentale, il "principio" o (secondo l’immagine di Montesquieu) il ressort, molla o energia spirituale che lo fa vivere secondo la sua essenza. Un concetto semplice, una definizione illuminante, una parola penetrante, sarebbero invece importanti per afferrarne l’intima natura e per prendere posizione.

Le definizioni, per la verità, non mancano, spesso fantasiose e suggestive. Anzi sovrabbondano, a dimostrazione che, forse, nessuna arriva al nocciolo, ma tutte gli girano intorno: autocrazia; signoria moderna; egoarchia; governo padronale o aziendale; dominio mediatico; grande seduzione; regime dell´unto del Signore; populismo o unzione del popolo; videocrazia; plutocrazia, governo demoscopico. Si potrebbe andare avanti. Si noterà che queste espressioni, a parte genericità ed esagerazioni, colgono (se li colgono) aspetti parziali e, soprattutto, sono legate a caratteri e proprietà personali di chi il regime attuale ha incarnato e tuttora incarna.

Ed è una visione riduttiva, come se si trattasse soltanto di un affare di persone; come se, cambiando le persone, potesse cambiare d’un tratto e del tutto la trama della politica. Invece, prassi, mentalità e costumi nuovi si sono introdotti partendo da lontano; sistemi di potere e metodi di governo sono stati istituiti. Un regime non nasce di colpo, va consolidandosi e forse andrà lontano. È un’illusione pensare che ciò che è stato ed è possa poi passare senza lasciare l´orma del suo piede. La questione che ci interroga è quella di cogliere con un concetto essenziale, comprensivo ed esplicativo di ciò che di oggettivo è venuto a stabilizzarsi e a sedimentare nella vita pubblica e che opera e opererà in noi, attorno a noi e, forse, contro di noi. Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente "berlusconismo", dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là.

Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un’essenza – giusti o sbagliati che siano – si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l’essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c’è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile.

A meno di credere a parole d’ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa – libertà, identità nazionale, difesa dell’Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere – il fine non si vede affatto, forse perché non c’è. O, più precisamente, il fine c’è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un’aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d’essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere.

A parte forse l’autore della massima "il potere logora chi non ce l’ha", nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. «Il fine giustifica i mezzi» è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se «i mezzi giustificano i mezzi»? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della "ragione strumentale" nella politica. Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all’occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso.

Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l’uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l’uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch’egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là. Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un "centro" senza contorni; si può avere un’idea, ma anche un’altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, "si è alla ricerca"; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il "politico" di successo, in questo regime, è il profittatore, è l’uomo "di circostanza" in ogni senso dell’espressione, è colui che "crede" in tutto e nel suo contrario.

Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d’arresto può essere l’inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo. La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell’essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere "disturbato". L’uomo di potere, di questo tipo di potere, non vede di fronte a sé alcuna natura esterna, poiché diventa ai suoi occhi egli stesso natura (naturalmente, lo si sarà compreso, si sta parlando di "tipo ideale", cioè di un modello che, nella sua perfezione, esiste solo in teoria).

Abbiamo iniziato queste considerazioni col proposito di cercare una definizione che, in una parola, condensi tutto questo. L’abbiamo trovata? Forse sì. Non ci voleva tanto: nichilismo, inteso come trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, scetticismo circa tutto ciò che supera l’ambito (sia esso pure un ambito smisurato) del proprio interesse. Chi conosce la storia di questo concetto sa di quale veleno, potenzialmente totalitario, esso abbia mostrato d’essere intriso. Ciò che, invece, si fa fatica a comprendere è come chi tuona tutti i giorni contro il famigerato "relativismo" non abbia nessun ritegno, addirittura, a tendergli la mano.

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